giovedì 15 febbraio 2018

Le tre età


Mi svuoto del nome degli altri. Mi svuoto le tasche.
Mi svuoto le scarpe e le lascio sul ciglio della strada.
Di notte metto indietro gli orologi;
apro l’album di famiglia e mi guardo bambino.

A che giova? Le ore hanno fatto il loro dovere.
Dico il mio nome. Dico addio.
Le parole si inseguono nel vento.
Amo mia moglie ma la caccio.

I miei genitori si alzano dai troni
nelle stanze delle nuvole. Come posso cantare?
Il tempo mi dice ciò che sono. Cambio e resto lo stesso.

Mi svuoto della mia vita e rimane la mia vita.
(Ciò che resta di Mark Strand)


Come nel famoso dipinto di Klimt sulle tre età, i manifesti elettorali con Berlusconi, Salvini e Meloni offrono l'allegoria del tempo che viviamo: la sapienza del vecchio cavaliere, la temperanza della maturo leghista, l'energia delle nuove leve. 
Di notte metto indietro gli orologi;
apro l’album di famiglia e mi guardo bambino
Miracolo italiano, davanti a questo quadro il tempo non passa, non passa mai. Guarda! Si dicono le stesse cose, si parla di sicurezza e si sorride molto. Berlusconi dai denti bianchissimi ha ancora in mano il suo contratto con gli italiani. Un altro, lo stesso, che importa...

(calendario)

  

martedì 13 febbraio 2018

13 febbraio, insolazione


Il sole che nel nuovo parco cittadino si appoggia in silenzio
sulle schiene dei cani e delle madri, e si rifrange sulle ciglia
dei bambini addormentati, sulle capigliature rare dei pensionati in vena di pensieri miti,
e che come un ricordo d'amore
pretenderebbe di avere con gli altri anche me
nella promessa della primavera, quasi
quasi ci riesce:
sento che anch'io, basterebbe volerlo,
potrei entrare nella luce di febbraio
e di sicuro sarei già più leggero,
se non fosse la testa intontita e un poco sollevata
per condividere qualcosa, in questo giorno.
("13 febbraio, insolazione" di Stefano Dal Bianco)


Per mia madre, e prima di lei per mia nonna, prendere il sole nei mesi che hanno la erre, fa malissimo. Punto. Non c'è storia, insolazione assicurata. Amo trascrivere, per voi che leggete, una poesia che coincide alla data del calendario, come questa. Quando mi capita tra le mani, la metto da parte, mi sembra ancora più affine alle nostre cose, un hic et nunc in versi che ci fa sentire parte del cosmo.
Allora, eccomi qui, anzi ci siamo tutti, siamo seduti sulla stessa panchina di Dal Bianco, anzi no, io sono quella lì di fronte, quella che legge un libro, e che sente quello stesso tepore addosso che le fa strizzare gli occhi come ai gatti. 
I gatti, divinità misteriosa, lari nelle case dei miti pensionati della poesia, giocattoli pelosi dei bimbi che vedo ora sulla scaletta dello scivolo, calda compagnia per i cuori solitari che incisero le loro iniziali sul legno della panchina dove sono seduta...
I gatti, divinità. Egizia.
Torino. Museo Egizio. La campagna elettorale di Giorgia Meloni è diventata un pezzo di cabaret. Il direttore che deve scendere in piazza e rispondere alle provocazioni, smantellandole una per una, che porta i dati e i numeri di un museo, privato, che tra l'altro va benissimo e le cui sale sono frequentatissime e non polverose, il personale che ci lavora si fa venire idee (come quella di intitolare una sala a Regeni, per dire) e di certo non viene scambiato per le mummie, come capita a volte, che invece, qui, giustamente, riposano nelle teche ben illuminate, secondo un percorso informativo degno di questo nome eccetera eccetera eccetera.
Oddio, è arrivata l'ombra. Mi devo spostare che mi raffreddo. Nel giardinetto di Dal Bianco cerco un pezzetto di sole che mi ottunda ancora un po' per condividere qualcosa, in questo giorno 13 febbraio. Qualcosa di meglio di una campagna elettorale a base di migranti..


(nel sole)



  

lunedì 12 febbraio 2018

Riflessioni

Sono d’argento e rigoroso. Non ho preconcetti.
Quello che vedo lo ingoio all’istante
così com’è, non velato d’amore o da avversione.
Non sono crudele sono solo veritiero –
l’occhio di un piccolo dio quadrangolare.
Passo molte ore a meditare sulla parete di fronte.
E’ rosa e macchiettata. La guardo da tanto tempo
che credo che faccia parte del mio cuore. Ma c’è e non c’è.
Facce e buio ci separano ripetutamente.

Ora sono un lago. Una donna si china su di me,
cercando nella sua distesa ciò che lei è veramente.
Poi si volge alle candele o alla luna, quelle bugiarde.
Vedo la sua schiena e la rifletto fedelmente.
Lei mi ricompensa con lacrime ed un agitare di mani.
Sono importante per lei. Va e viene.
Ogni mattina è la sua faccia che prende il posto del buio.
In me ha annegato una ragazza e in me una vecchia
sale verso di lei giorno dopo giorno come un pesce
tremendo.
(Specchio di Silvia Plath)

Lo specchio di Silvia Plath (Boston, 27 ottobre 1932 – Londra, 11 febbraio 1963) riflette Amelia Rosselli (Parigi, 28 marzo 1930 – Roma, 11 febbraio 1996) che decide di togliersi la vita, anche lei, l'11 febbraio.  

Dissipa se tu puoi la forza che
mi congiunge a te: dissipa l’orrore che mi ritorna
a te. Lascia che l’ardore si faccia misericordia,
lascia che il coraggio si smonti in minuscule
parti, lascia l’inverno stirarsi importante nelle
sue celle, lascia la primavera portare via il
seme dell’indolenza, lascia l’estate bruciare
violenta e incauta; lascia l’inverno tornare
disfatto e squillante, lascia tutto – ritorna
a me; lascia l’inverno riposare sul suo letto
di fiume secco; lascia tutto, e ritorna alla
notte delicate delle mie mani. Lascia il sapore
della gloria ad altri, lascia l’uragano sfogarsi.
Lascia l’innocenza e ritorna al buio, lascia
l’incontro e ritorna alla luce.
(da La libellula di Amelia Rosselli)

(dentro l'arte)






mercoledì 7 febbraio 2018

Stanco di chi non offre che parole


Stanco di chi non offre che parole, parole senza lingua
sono andato sull'isola coperta di neve.
Non ha parole il deserto.
Le pagine bianche dilagano ovunque!
Scopro orme di capriolo sulla neve.
Lingua senza parole.
(Tomas Tranströmer)


Stanco di chi non offre che parole, parole senza lingua, lo dichiaro: mi sono stancata della parola "percepire" che, con le sue declinazioni, condisce la frase di un tono falsamente scientifico e razionale, esprimendo una sensazione soggettiva... oggettivizzandola come fatto assodato. 
Mi ha stancato chi usa male il termine e lo sostituisce, col tono forbito, al vecchio "sentire", considerato più banale. "Percepire il suono del telefonino", ma perché?
Mi hanno stancato i meteorologi con le loro temperature percepite, sempre più alte di quelle vere, e le loro tabelle dai soli roventi.
E non ne posso più delle strumentalizzazioni, amplificate dalla stampa e dalla tv e dai social; chi percepisce che ci sono troppi immigrati anche se i numeri dicono il contrario, chi percepisce che una volta si stava meglio anche se i numeri dicono il contrario, chi percepisce che l'immigrazione ha aumentato la criminalità anche se i numeri dicono il contrario. 
Un paese di spiritisti, di medium, popolato da gente alla giucas casella che trabocca sensazioni, un paese che si parla addosso e brancola nella nube tossica delle percezioni. Che all'analisi dei fatti preferisce, sempre, il "secondo me" perché fa notizia, fa vicinanza, aiuta la "narrazione". La narrazione... E poi il "secondo me" è un ottimo nutrimento delle fake news, fa rumore, anzi fa un sacco di casino. La percezione, se non altro, nella sua accezione prima, non fa rumore affatto, attiene a qualcosa di profondo, a qualcosa che emerge carsicamente, un qualcosa di abissale, indicibile e che uno, al massimo, confessa a casa, confidandosi con quelle tre persone a cui si è legati da intimità. 
E anche sulla parola intimità, oddio, quante ne avrei...   
Una lingua pubblica senza le parole dettate dalla pancia, una lingua colta, e condivisa, che analizzi razionalmente e non sensorialmente i fatti.
Ora vi saluto. Parto.
Vado sull'isola coperta di neve a farmi due chiacchiere, silenziose, con Tomas Tranströmer. Il poeta svedese nel 2011 è stato insignito del Premio Nobel per la letteratura, e nella motivazione si legge "perché attraverso le sue immagini condensate e traslucide, ci ha dato nuovo accesso alla realtà".
La temperatura dell'isola sarà vicina lo zero, ma non ci importa, a me e a Tomas. 
E' la temperatura reale che ci interessa.  


(percepire le 16)





    

martedì 6 febbraio 2018

Ci dividono mari, le lingue


Ci dividono mari, le lingue,
senza più orme gli anni lupi grigi
vanno sviando e non hai saputo
né 'the awe' né 'vieillot',
né 'Holunder' né 'gemicare';
io ignoro il suono delle parole
come le dicevi pellegrinando,
ma tua figlia Satojo grazie al canto diventa
la mia, piango con te, o Issa,
sento la gioia che fosse e le rane,
i germogli nelle risaie, i colpi
allegri nel lavatoio, la carta
che crocchia e la luna in bilancia
sospesa sopra di noi,
la lepre annidata, il timido mito
di petali appena sbocciati.
Risurrezione accomuna. Una patria
invita noi orfani di Satojo con un richiamo 
di diciassette sillabe; più lungo il mio,
troppo; purtroppo
non come a te ti lievita immenso,
nuvola che incorona il vulcano,
o una sola precisa farfalla.
(Per Issa, per Satojo di Federico Hindermann)


Come quando un amico ti presenta una persona che non conoscevi, e che diventa un altro amico ancora, da un libro si può passare a un altro e poi a un altro, allungando di un po' il cammino che pensavamo di fare ma con esso l'orizzonte della conoscenza. Certo è che dell'amico, come del libro, ti devi fidare, cioè deve essere un buon amico. 
E' così che ho incontrato Federico Hindermann, cammina cammina, seguendo le tracce prima di Giorgio Orelli, che mi hanno fatto fare una deviazione verso Vittorio Sereni, e poi quelle di Fabio Pusterla, autore della bella introduzione a questo volume di poesie, quarant'anni di testi del poeta svizzero Federico Hindermann. 
L'immagine del cammino, non solo nella forma del percorso esistenziale, torna anche nella raccolta. Panorami alpini, speroni di roccia, gli incontri casuali... 
Nella struttura poetica, i testi spesso obbediscono a quel ribaltamento formale, di tono e di atmosfera e che negli haiku chiameremmo kireji, offrendo al lettore una sorpresa nel finale. 
Ribaltamento nel ribaltamento è stata poi la scoperta della poesia dedicata a Issa, il grande maestro di haiku, che cristallizza il dolore del maestro zen per la perdita della figlia Satojo. Il lutto di Issa, diventa anche di Hindermann e infine di chi legge, un dolore accessibile attraverso una poesia dove trapelano, come a squarciarla, micro citazioni di haiku giapponesi e parole dal suono meraviglioso ma intraducibile.
Ci dividono mari, le lingue,
senza più orme gli anni lupi grigi
Bella la copertina. Che sia proprio la farfalla di un haiku Issa?


Vola una farfalla
sono anch'io
come polvere

(Issa 1763-1828)



(sempre altrove)






    


   


lunedì 5 febbraio 2018

Ignominioso presente


Per nessuna ragione,
sapendo quello che succede,
mi vorrei risvegliare in questo mondo.
Ma già pensandolo (pensando 
di pensarlo) so anche
che non è vero, che per quanto
ignominioso sia il presente io mai
rinuncerei, potendo scegliere,
a starci, magari di sghembo
e rattrappito d'amarezza, dentro.
Forse, mi dico allora,
non è per me che parlo, è qualcun altro,
nato da poco o nascituro,
ad agitarsi nel mio sonno, a premere
da chissà dove sul mio cuore,
a impastare parole col mio fiato...
(Giovanni Raboni)



Pensavo che l'effetto della sparatoria del fascioterminator di Macerata fosse un boomerang per la destra. Ci speravo, ma mi sbagliavo. E le frasi, le smentite, le dichiarazioni, i saluti romani e di nuovo le dichiarazioni, e la paura e la sicurezza, mi rattrappiscono d'amarezza. Ma quel pensandolo (pensando di pensarlo) e l'invito a impastare parole col mio fiato del testo di Raboni mi ricaricano. 
E provo ad andare avanti.


(una meta)






venerdì 2 febbraio 2018

eppure eppure


È di rugiada
è un mondo di rugiada
eppure eppure

(Issa 1723-1828)


Alla fine è tutto molto più complicato. La questione femminile - con tanto di lotte, conquiste e obiettivi futuri - non ci sta chiusa tutta dentro un hashtag. E la discussione che si è creata sul #metoo prova, a mio avviso, che è impossibile parteggiare per una o per l'altra tesi perché, prima di tutto, non dovrebbero esserci fazioni. Ma non eravamo arrivati al punto di non dover per forza precisare "che si tratta di ricatto se lui è un tuo superiore" parlando tra amici che ti conoscono (e ti riconoscono come donna impegnata, progressista eccetera), perché bisogna ribadirlo ancora? Ma non lo sapevamo, non condividevamo quelle due o tre cose? Sottoscrivere banalità assodate con occhi iniettati di sangue, guardare storto Woody Allen, elencare tutti i tentativi di approccio, mischiarli con le molestie e dover fare schemetti:  allora, lo stupro è quando, la molestia invece, la mano morta... finendo a sganasciarci, è ovvio, solo a ricordare, e a mischiare di nuovo tutto, e poi c'è quello che cita Balthus e l'altra Chi l'ha visto?...

Nel mondo degli eppure, quello che preferisco, si può essere d'accordo con Anna Bravo e anche con Anna Momigliano, e anche con Teresa Bellemo, intellettuali che tra loro la pensano diversamente ma che analizzano le diverse sfumature e rappresentano con i loro interventi, un eppure. Perché sono le sfumature che fanno un individuo pensante e non il genere. 
E dobbiamo ancora ripetercelo.


(sfumature)