Visualizzazione post con etichetta haiku. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta haiku. Mostra tutti i post

giovedì 9 giugno 2016

Piuma e farfalla

Ho del riso
dei libri
e persino del tabacco
(Santoka 1882-1940)



Note sparse sulla vecchiaia.
Ho letto un libro bellissimo il cui autore è un bellissimo vecchio.
Hans Magnus Enzesberger, scrivo qui il suo nome altisonante per la prima volta e capisco ancora più chiaramente quanto sarebbe andato lontano il piccolo Magnus, nato a Varsavia nel lontano 1929. 

Lo vidi personalmente per la prima volta nel 2006, mi piace ricostruire le date precisamente, con un cappellino di cotone celeste che gli proteggeva la testa dal caldo, in una piazza assolata di un formicolante festival letterario, e poi nel 2012 dietro le quinte di un altro incontro radiofonico, questa volta a Torino. Sempre gentilissimo e affabile. Una piuma sorridente.

In "Tumulto" racconta circa venti anni di vita attraverso l'esperienza del comunismo sovietico e cubano, gli anni sessanta e settanta del novecento che, questo intellettuale poeta e traduttore tedesco, che la vita ha portato a vivere un po' ovunque, ricostruisce su vecchi appunti casualmente ritrovati oggi. Un'insolita intervista autobiografica, giocata tra psicoanalisi e divertimento, tra un lui vecchio e un lui giovane, in dialogo. Quel lontano Enzesberger, quello giovane e tumultuoso, quello di una vecchia foto in un quaderno, e l'altro, quello novantenne.
Pudiche notazioni private, un sobrio divorzio o la passione amorosa per una donna russa trattati con il medesimo distacco e un filo di ironia. Il soggiorno a L'Havana, la guerra fredda, Kruscev osservato a pranzo, i libri amati, i poeti detestati e gli intellettuali assiduamente frequentati. Conto le lingue che conosce, gli amici e le donne amate. Brevi accenni a qualche delusione, meglio lasciarle laggiù. 

Arrivo all'ultima pagina mentre nell'aria ancora galleggiano le foto di Muhammad Alì. Così aitante, così bello, ape e farfalla in quegli stessi anni giovanili vissuti dallo scrittore. Scorro altre foto pubblicate questa settimana, alcune, più rare, del suo viso di pugile vecchio. Gli zigomi scavati, la testa quasi di teschio, lo sguardo appannato dalla malattia. Le mani tremanti, ferme solo nello scatto fotografico, e che vedo finalmente serrate nel pugno come una volta.
Enzesberger e Alì. 
Sovrappongo due esistenze lontanissime. Penso alla trappola del declino fisico, a tutta la forza che ci vuole per allentarne un po' la morsa e penso che per andare avanti forse bisogna proprio essere, come dice una poesia di Enzesberger, "più leggeri dell'aria".
Come una piuma, un'ape o una farfalla.











   

    

martedì 7 giugno 2016

Stagione

In modo semplice 
se ne va la primavera
tra le erbe dei prati
(Issa 1763-1827)


Un "cogli l'attimo", un "carpe diem" in versione giapponese.
Un haiku da leggere e rileggere, da declinare secondo i ricordi di ognuno, possibile commento a sensazioni antiche, quelle che riemergono all'improvviso tipo dejavu e che trafiggono come frecce, o dolce monito per un presente da vivere tutto.

Semplicità da cercare tra le erbe dei prati, nel gelsomino sul terrazzo o ficcando il naso tra le foglie di basilico prima di usarle in cucina. 

Anche il mio armadio, dopo il cambio di stagione, sa di primavera, così miracolosamente ordinato in vero stile negozio. Signora desidera? Forse una camicetta fresca e ordinatissima, non spiegazzata? Prego! Qui i colori pastello, lì seta e stoffe leggere. Sacchetti di lavanda fragranti su pile perfette, posso scegliere la biancheria ad occhi chiusi, nessuna ruvida manica di cappottone ostacolerà la chiusura dell'anta che finalmente sguiscia serena sui suoi binari. Gonne fluttuanti in ordine di lunghezza, borse di pelle, morbide, e non più ammaccate come zampogne tristi. 
Mi godo l'attimo primaverile, tutta la sua freschezza, so bene che se ne andrà presto. 
Soprattutto dal mio armadio.

(Primavera che se ne va)

giovedì 2 giugno 2016

2 giugno

Donne, uomini
le loro ombre
danzanti
(Santōka 1882-1940)

Lo sapevo! Lo sapevo che per festeggiare la Festa della Repubblica dovevo chiedere a Santoka. Un haiku danzante come proposta alternativa alle parate militari che proprio oggi due giugno mi appaiono un po' fuori tema
E allora? Festeggiamo la Repubblica, semplicemente, e smettiamola di dire che "siamo in una dittatura", ad esempio, che poi uno ci crede. Godiamoci la libertà di parola, il voto, ricordiamoci la storia di lungimiranza e coraggio di chi ha combattuto per questi diritti. Diritti civili. Riprendiamoci i colori della bandiera italiana, appannaggio di forze destrorse di torvi gazebo elettorali.
E via con le danze!


(Bianco Rosso e Verde)














martedì 31 maggio 2016

Quasi estate

Torno a vederli
ed i fiori di ciliegio nella sera
sono già frutti
(Yosa Buson 1716-1784)



Qui è quasi estate e godo del primo sole fino a intontirmi.
Le pietre lisce dove cammino sembrano d'avorio, lucidissime, e riverbereranno i raggi, giorno dopo giorno, sempre più implacabilmente. 
I negozi, mezzi chiusi come palpebre, si difendono per tempo con tende scure. Qualche bancarella di collanine indiane, tavolini con tovaglie stirate di fresco che attendono i primi aperitivi serali e gli smartphone da poggiarci su. Sarà una buona estate, arriveranno i turisti? Per adesso nessuna musica lounge nell'aria, ancora solo vociare. 
Il rosso di una cassetta di ciliegie poggiata a terra, una cassetta sola, tra tutto quel bianco e tutto quel blu; il mare è a pochi passi da me.
"Me ne dà un po'?" chiedo al venditore che sovrintende il suo minuscolo commercio. Il vecchio contadino annuisce, sfila dalla tasca una busta di plastica per riempirmela, sta già piegandosi in silenzio sulla sua cassetta. La brezza rinfresca questo inizio di pomeriggio. Guardo la sua mano forte e grossa, un pezzo di ramo che trema, la pelle ispessita delle dita, e guardo il sacchetto che continua a sfuggirgli. Allora acciuffo i manici, tendo la busta ben aperta, e lascio che la riempia. 
Sbuca dall'ombra un ragazzino di circa otto anni con una vecchia bilancia tra le braccia. La poggia per terra e, serio, pesa il mio sacchetto, guarda il nonno e dice che è un chilo.
"Grazie" 
Ho un po' di fretta, devo proprio tornare, prendere il treno.

Alle mie spalle so che quel vecchio sta accarezzando la testa del ragazzino nel modo legnoso e delicato che tutti i nipoti del mondo conoscono e che ricorderanno per la vita. Io sono di nuovo a casa e sto per riempire la fruttiera delle ciliegie del lungomare. 
E sarà quasi estate anche qui.


(sono già frutti)





lunedì 30 maggio 2016

Questi marò

Nella capanna del pescatore
l'odore del pesce seccato
che caldo!
(Shiki 1867-1902)


E i marò sono tornati in Italia. Sono tornati nei telegiornali, uno di loro dichiara serio sotto il cappello della divisa qualcosa che non mi interessa, sfoglio giornali nazionali, gazzette del sud dove nelle foto ali folla sorridente esulta.
Questi marò, che non chiamo nostri (mai sentiti tali), nel cui nome stesso, "marò", intravedo una nota odiosa, sprezzante e sbrigativa, sono tornati.
Spero che non vadano in tv, impettiti, sempre in divisa, a parlare parlare parlare, che non scrivano memoriali che in molti comprerebbero, che nessuna serie televisiva si ispiri alla loro storia, che non sfilino in parate commemorative.
Infine, sperando che Girone non si candidi a sindaco di Roma, che preferiscano essere dimenticati.


(Pesciolini di eucalipto sotto casa)

mercoledì 25 maggio 2016

Pantelleria

Ho dei libri
del riso
e persino del tabacco
(Santoka 1882-1940)



"Ecco l'isola dai tanti nomi: Yrnm, Cossyra, Qawsra, Bent el-Rhia, Pantelleria" scrive Giosuè Calaciura nel suo libro dedicato a Pantelleria, questa isola minuscola con già dentro il suo nome un elemento panico. 

Pantelleria è l'ultima isola, un distillato di universo, un big bang in formato tascabile.
In questo libro la scrittura coincide precisamente con ciò di cui si racconta. Parole dense, solide, scelte e collocate come piccole pietre su un muretto a secco, una per una. Artificio o natura? Parole per guidarci in un posto nato dalla terra esplosa, mosso da terremoti e che sa più di lava che di mare.
Terra. Pietre. Su cui cresce poco e con grande fatica. L'astuzia dei suoi "jardini", i torrioni di pietra che, come scrigni di ombra e di acqua abilmente convogliata al loro interno, custodiscono una sola pianta di aranci o di limoni. Il nero vetroso della pietra lavica, il suo calore che sa di forno, dice Calaciura.
Da una pietra si può nascere, sulla pietra si può vivere? E se la pietra può essere pane e madre, la morte è come la vita? Pantelleria prende la voce dell'autore e si rivolge ai ricchi turisti che ristrutturano i dammusi e ai migranti che raggiungono la sua costa sui barconi. 
L'elemento ctonio, pauroso eppure così familiare, continua il suo soliloquio eterno, come farebbe una creatura di Ovidio o di Omero, un essere mitico che viene dall'Oriente o dall'Africa. Ci riguarda, ci parla. Ci incanta.

Questa è una guida che non porta da nessuna parte, non suggerisce ristorantini o calette blu da postare su istagram, ci invita a stare fermi, in ascolto. Non parla troppo e, secondo me, assomiglia molto al suo autore.
Calaciura capovolge la bella copertina del suo libro per raccontare, con la lingua adatta, quello che c'è sotto l'isola amata, sotto la superficie del mare. 
E riesce a mostrarci i luoghi oscuri e ribollenti che sorreggono tutta l'umanità prima che affondino di nuovo.


(isole in redazione)
   

lunedì 23 maggio 2016

Legalità

In un villaggio di cento case
nemmeno un cancello
senza il suo crisantemo
(Yosa Buson 1716-1783)


La malinconia di una giornata, una, una sola, dedicata alla legalità. Una su trecentosessantacinque? Il tritolo rimbomba ancora in lontananza, in primo piano il silenzio di uno scontrino non battuto, di una fattura mai emessa, il vuoto pneumatico di tasse evase,  il ronzio continuo di una slot che macina neuroni e stipendi. Intorno, un panorama degradato a cui non guardiamo quasi più: abusi per una mazzetta, fiumi nel cemento, strade non finite, lavoratori non in sicurezza, il paesaggio violentato. Il grigio che prevale sul colore.
La malinconia di un giorno sul calendario, uno, uno solo, per parlare nelle scuole, come è successo ieri per la biodiversità: la legalità da proteggere come l'orso bianco?

Un piccolo crisantemo davanti ogni cancello in memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, tutti i giorni. 


(Cappa grigia)











mercoledì 18 maggio 2016

Senza l'albero

Vecchio villaggio:
nessuna casa
senza un albero di diosperi
(Bashō 1644-1694)


"Susannaaaaa, non sai che stanno facendooo! L'albero quello bello, quello enorme bellissimoooo!" Mauro urlava nel mio telefonino cercando di superare il suono della sega elettrica. "Ho cercato di fermarli, cazzo. Ho cercato, ma nulla da fare... L'hanno distrutto..."
"Ma perchè?" 
"Toglie luce, dicono, ma che ne so... Dovessi vedere come l'hanno ridotto..."
Torno a casa e, proprio come il merlo che vedo zampettare con aria interrogativa sopra quei due monconi che hanno lasciato al posto di rami, cerco anche io l'albero meraviglioso che era lì fino a poche ore prima.
"Dove è finito il mio nido, dove sta? Non lo trovo più!" Con il suo capino nervoso, sembra proprio cercarlo di qua e di là.
Fino a ieri sera ci faceva da tenda, riparandoci da sguardi indiscreti, il nostro albero, ornamento naturale e fluttuante. 
"Dove sta il nostro albero? Non c'è più!".
E siamo andati a dormire tutti e tre, due umani più un merlo, tristissimi. Come se ci avessero preso a schiaffi, con un carico di frustrazione come dopo un sopruso, come se mi avessero ucciso il cane, ha detto Mauro, come se mi avessero caricato a una manifestazione pacifica, dico io.
La casa ci era piaciuta tanto anche per lui, la mattina ci svegliavamo con gli uccellini che cantavano dai rami e le ombre delle fronde che dondolavano sull'armadio. Che bello quell'albero grande che spuntava alla nostra finestra e di cui non abbiamo mai capito la specie. Non era un pino, nè un'acacia, tantomeno un diospero dai cachi prelibati, era solo un bellissimo albero. 
Bellissimo, con tante foglie argentee, che sarebbero diventate gialle e poi verdi, pieno di uccellini che la mattina avrebbero ancora cantato al posto di una banalissima sveglia.

(Stamattina)
                                

mercoledì 14 gennaio 2015

Akutagawa

Il mio naso che cola
solo sulla punta
l'ultima luce della sera
(Akutagawa 1892-1927)




Questo strano haiku che ride di se stesso viene anche classificato come uno jisei ovvero quella poesia giapponese "ultima" con la quale il poeta saluta la vita. Il sarcastico, tenebroso, decadente Akutagawa sceglie uno haiku come jisei prima di suicidarsi e lo sceglie bello irridente. L'ultima presa in giro è per il suo naso gocciolante.

Leggendolo a una settimana esatta dai fatti di Charly Hebdo il pensiero può andare ai vignettisti, a quanto una vignetta possa essere irridente eccetera eccetera.
Ma sconfino anche io, tralascio tutto questo e plano sull'aspetto ridicolo di questa connessione continua, forzata e un po' passiva (ma inevitabile) alle notizie che si accavallano e rimescolano una con l'altra.

Non è ridicolo il senso di saturazione che ormai impedisce la memoria storica? Non fanno ridere i carlifrecceri intervistati sull'islam che si autocelebrano parlando di un loro programma televisivo anni ottanta? E le battute su twitter, in cui sono incappata, una diceva: "avvistata gente con la matita in mano al funerale di Pino Daniele"? E i giornalisti che intervistano musulmani fuori alla moschea e chiedono se sono d'accordo con l'Isis, non sono da scompisciarsi? E l'Isis che gira spot alla Spielberg? E non fa forse ridere a crepapelle anche Anonymus, leader virtuale dell'associazione mondiale di hacker, che dovrebbe tranquillizzarci perchè tutelerebbe il web, ma si veste da jocker e ha la voce da cartone animato?
Ho proprio il "naso che cola" dalle risate. Piango dalle risate.


(Riso. Di vari tipi)
































venerdì 5 dicembre 2014

Rovine romane

Rovine romane
attraverso cui soffia
vento d'autunno.
(Sono Uchida 1924)







Continuo a sfogliare con voi la raccolta romana di Sono Uchida mentre le notizie sulla cupola si accavallano l'una sull'altra. 
Collusioni eccellenti, PD romano commissariato, frasi smozzicate da intercettazioni incredibili come questa: "zingari meglio della droga".

Scavando tra le "rovine romane" riemergono bande della magliana nei secoli operative, tangenti anni sessanta, anni settanta, anni ottanta, anni novanta, anni duemila. Festini in maschera organizzati dalla giunta romana PDL con gli uomini travestiti da maiali e le donne da ninfe (ricordate?) e le aziende di trasporti e nettezza urbana date in mano a parenti e a camerati.
Osserviamole meglio queste rovine: pezzi di città faticosamente recuperati al degrado poi abbandonati al loro destino, arredi urbani fai-da-te, spazi pubblici improvvisamente proprietà privata di questa o quella pizzeria dal nome ammiccante ma torvo. "Peperoncino pazzariello", "Pummarola romana", "Mozzarella dispettosa"... 
E finalmente capiamo il senso di tutto e tutto insieme. I loschi esattori abusivi davanti alle macchinette per il parcheggio, ifiorire ad ogni angolo di cupi bar forniti di slot, bingo-tinelli per nuclei familiari di disperati. Ogni tanto, per gradire, un barbone che prende fuoco.
E finalmente arriviamo al razzismo telecomandato, a Tor Sapienza e ai campi rom e torniamo agli zingari dell'intercettazione. 

Dimenticavo l'ultimo coccio di queste "rovine romane"è notizia di ieri l'arresto di un professore di Architettura dell'Università La Sapienza che si vendeva ogni esame per duemila euro (notizia qui)


("E mmò?"   da  Mario Sironi 1925 - Solitudine - particolare.)











   


   


giovedì 27 novembre 2014

Io in una pittura

Il mio cavallo cammina
per la pianura d'estate.
Io in una pittura.
(Bashō 1644-1694)




Capita che certe parole ci vengano in visita dal passato. 

Mi trovavo in quella seccante situazione che conosciamo tutti: sulla sedia del dentista. Immobile, piedi formicolanti, lingua secca prosciugata da quella specie di uncino aspirante, con un orecchio improvvisamente da grattare su cui premeva parte di quell'aggeggio che consente di tenere la bocca ben aperta. Mentre stavo combinata così, casualmente mi intravedo riflessa in un segmento metallico della lampada accecante, che pietosamente ogni tanto mi abbassano dagli occhi sbarrati, e penso "Ma guarda che caspita di mordacchia mi hanno messo!" 
'Mordacchia' è una parola che usava mio padre. "Ti metto la mordacchia!" mi diceva quando rompevo, quando parlavo troppo con il mio tono petulante che lui imitava facendo le smorfie. Imparai perfettamente il significato di "mordacchia" pur vivendo in un appartamento e non in una fattoria. 
E amo il suono dispettoso di questa parola buffa che scherza con "racchia" e con "morso" e che un papà esasperato e simpatico mi lanciava dietro quando ero ragazzina. Una parola che ieri pomeriggio, dal dentista, improvvisamente, mi ha accarezzato.

Capita così con certe parole che, all'improvviso e chissà perché, ci raggiungono dal passato.


(Il mio cavallo cammina)



martedì 25 novembre 2014

Sole, stelle e silenzio

Radioso splendore
del sole sulle pietre
che landa desolata
(Yosa Buson 1715-1783)





Alla luce del trepidante saluto all'astronauta Samantha Cristoforetti, a cui mi unisco, riflettevo sull'idea di spazio condivisa dai più, risultato, al massimo, di qualche film di fantascienza o cartone animato. 
Una claustrofobica navicella, omini col casco tipo boccia dei pesci rossi al rovescio, movimenti rallentati. Per pranzo, barrette al sapore di pasta al sugo o di bistecca e le posate che levitano dispettose in assenza di gravità. Fuori l'oblò, un fondale buio, non molto rassicurante in verità, scie luminose, pianeti lattiginosi, la "landa desolata" della luna con i suoi crateri, la terra azzurrina e la palla infuocata del sole. 
Sparso ovunque e infinito, un luccichio tipo quello della porporina sui presepi. 
Luca Parmitano ci ha già abituato a immagini riprese e fatteci arrivare da lui stesso direttamente sulla terra, e sui nostri smartphone, via social. Il triangolone dell'Africa, le costellazioni in presa diretta e comete fluttuanti che ci recapitava, non hanno mai tradito la nostra aspettativa bambina, modesto frutto di manga e tg.
Solo una cosa, purtroppo, nessun equipaggio spaziale potrà restituirci: il silenzio che si "sente" lassù.
Quella precisa sonorità di silenzio spaziale non riusciremo mai a capirla né a immaginarla. 
Quello strano e invincibile padre di tutti i silenzi. 
Quel silenzio tangibile e visibile che nessun astronauta riuscirà, purtroppo, mai a condividere neanche con un prodigioso tweet stellare.


(Galleria Arte Moderna di Roma. "Il sole" visto da Giuseppe Pellizza da Volpedo 110 anni fa) 




   












martedì 18 novembre 2014

Vestigia

Vestigia di sogni
dei Romani - cadono
le foglie rosse
(Sono Uchida 1924)



Chi meglio di Uchida, il poeta che per anni ha lavorato a Roma come diplomatico, può raccontare di "vestigia di sogni" classici...nel Dailyhaiku?
Uso questi tre versi dalle foglie rosse, che ora immagino dei platani e non più degli aceri giapponesi, per raccontarvi un incontro speciale di sabato sera e mettere ordine su un paio di cose che mi sono mulinate in testa sull'uso dei classici.

Ho avuto il piacere, e quando il lavoro si coniuga a questo è un momento per me di vera festa, di conoscere il collettivo teatrale Anagoor e presentare al pubblico romano questo ultimo "Virgilio brucia" al Teatro Vascello.
Ora vi racconto come "funziona" lo spettacolo ovviamente secondo la mia lettura.
Lavorando su vari livelli, gli Anagoor dividono l'ora e quaranta di suggestioni virgiliane in due macro sezioni e in una zona centrale.

La prima sezione è caratterizzata dall'uso di registrazioni audio e video che dialogano con cori tradizionali croati, di rara perfezione, in scena. Video-episodi di ambiente scolastico si intersecano al momento teatrale, musica, multilinguismo e frammenti letterari, tratti da Kiš e Broch, ci parlano delle grandi tragedie dell'umanità.
Poi assistiamo a quella che definirei zona centrale, bellissima e struggente, ispirata alla discesa agli inferi virgiliana. Attori e spettatori, ombre immobili, guardano allo "spettacolo" di un video dove una natura serializzata negli allevamenti intensivi sembra solo dover nascere per dover morire.

Nei video ho ritrovato Mondrian, nei panneggi e nella scenografia Bill Viola, Giorgione e Alma Tadema e i toni lividi e "ideali" suggeriscono un'estetica di neo-neo-neo classicismo.  


(Nella letteratura!)



Infine arriviamo alla seconda sezione dove Virgilio, l'attore Marco Menegoni, con un microfono ad asta declama in latino, davanti a Ottaviano e alla sua corte, immobili e in silhouette, il sacco di Troia, la fuga di Enea con il padre e il figlio e la moglie Creusa. Urla la sua verità come al muto cospetto della Storia. 
Virgilio brucia.
Ascoltiamo ritmo e pronuncia, le aspirazioni e tutti i suoni duri di un latino vitale e focoso e, aiutati dai sottotitoli riusciamo a comprendere, non più solo empaticamente, tutto il dolore del mondo attraverso quella che chiamavamo, fino a poco prima, lingua "morta". 
Respiriamo nelle stesse pause di Menegoni e partecipiamo attoniti a un lutto eterno che, perpetrandosi nelle forme più varie, sarà anche il "nostro" lutto. 
E' urgente un uso non feticistico dei classici. Che siano reperti archeologici o letterari, non dobbiamo permettere che  ammuffiscano negli archivi delle biblioteche o nelle soffitte dei musei. Per me, come dicevo QUI a proposito dei bronzi di Riace, meglio un rischio ammaccatura ma in giro per il mondo! E' urgente proprio in questa nostra epoca dove la tendenza è quella di starsene chiusi a casa davanti al pc, inchiodati a una pagina di wikipedia e pensare di avere "già" visto tutto, "già" capito tutto, "già" studiato tutto. 
Come è urgente e "bruciante" leggere la letteratura seria, quella dove non si trovano risposte ma solo domande. E' un lavoro faticoso e aristocratico (beninteso, per me è la comunità dei lettori, sempre più ristretta, quella dei veri aristoi). 

Con questo "Virgilio brucia" gli Anagoor (sito) hanno dato un contributo suggestivo, e quando una lingua morta genera vita è un gran bel momento! 


       







  

venerdì 14 novembre 2014

Fiori di glicine

Affaticato
alla ricerca di un tetto
i fiori di glicine
(Bashō 1644-1694) 



"Qui non entrare, non è per voi!" questo simpatico motto di accoglienza era all'indirizzo degli stranieri che ieri mattina gravitavano dalle parti di un bar di Tor Sapienza. Nella polveriera che è diventato nelle ultime settimane questo quartiere romano, la miccia si è riaccesa subito e in poco tempo si è passati alla rissa, poi ai lanci di bottiglie e pietre.     
Come soluzione - ripeto 'soluzione' - nel pomeriggio di ieri si è deciso di trasferire altrove tutti gli ospiti del centro di accoglienza del quartiere, sbarcati in agosto fuggendo da Etiopia, Somalia, Gambia e Guinea.
Leggo lo sconsolato sfogo della presidentessa della cooperativa "Il sorriso" che denuncia il razzismo di una periferia che pensa di risolvere con questo misero sgombero i suoi problemi, di altre malinconiche testimonianze sui fatti di questi giorni, dell'arrivo annunciato di Borghezio, di Alfano, leggo delle lacrime degli operatori. La notizia che vi linko QUI dice testualmente che il trasferimento delle ottanta persone "è cominciato con lo spostamento dei minori non accompagnati".
Minori non accompagnati. Ovvero quarantacinque ragazzini orfani e soli. 
Che pensano degli adulti? Che adulti diventeranno? 
Tristezza e vergogna. Altro che "fiori di glicine"!



(Abbandonati per strada)


















lunedì 10 novembre 2014

Candele

Sera di primavera
la fiamma passa
di lume in lume
(Yosa Buson 1716-1784)



È stata proprio una bella "sera di primavera" quella di sabato scorso in piazza a Roma! 

Dopo un tam tam su FB e TW ci siamo ritrovati da una piazza virtuale alla reale Piazza Indipendenza e, tutti insieme, sabato alle sei del pomeriggio, abbiamo acceso tante candele in memoria di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Riccardo Rassman e moltissimi altri.
Mi guardavo intorno. Eccola qui la "società civile", pensavo. Incrociavo sguardi liberi, dritti e caldi. C'erano bambini minuscoli che giocavano con le fiammelle, anziani, ragazzi dei centri sociali con i dreadlocks d'ordinanza, giovani seri dall'aria scout. Tutti sono arrivati in piazza con un ideale comune: che la polizia tratti le persone, sempre e comunque, con rispetto.


Sotto le finestre del CSM, a due passi dalla Stazione Termini, ricovero e incrocio di emarginati e quindi cittadini di serie B, in una piazza che si chiama "Indipendenza", abbiamo ascoltato le parole dei familiari partecipando a qualcosa di simile a una messa laica. Uniti, silenziosi e commossi. Le candele, la musica sommessa di un gruppo di fiati, il raccoglimento in mezzo al caos di Roma.

E poi ci siamo salutati, con la speranza che la fiamma passi "di lume in lume"! 







venerdì 7 novembre 2014

Pioggia e gatti blu

Sta piovendo -
un gatto infangato
sonnecchia sul sutra
(Natsume Sōseki 1867-1916)






Piove a dirotto anche nello haiku di oggi.
Con tre versi appaiono mondi: la stagione, qui attraverso il kigo della pioggia, il calore di un momento buffo che volutamente stride con la solennità del sutra. Il ribaltamento di senso, dato dal kireji finale.
Natsume Sōseki è stato lo scrittore che, con "Guanciale d'erba" edito da Neri Pozza, tempo fa mi ha aperto la porta sulla letteratura giapponese. Uscito nel 1906, anticipando di una dozzina di anni "La passeggiata" di Robert Walser, anche il passeggiatore di Sōseki ci guida lungo un cammino di conoscenza e introspezione popolato da incontri casuali e formativi. Ragionamento sul senso dell'arte, è anche una metafora della conoscenza in un'atmosfera di sospensione atemporale puramente giapponese.


Andando in giro in motorino per Roma, e sempre proposito di inizi, notandola tappezzata di manifesti che pubblicizzano il film "Doraemon", non posso non individuare proprio in questo cartone il mio primissimo e inconsapevole accesso al Giappone.
Sì, avete capito bene. Andavo pazza per Doraemon!
E' stato proprio il gatto spaziale con la sacca magica a introdurmi nelle case e nelle abitudini quotidiane giapponesi, ad abituarmi a quei "suoni" strani. A insegnarmi il significato di parole come bento, dorayaki, tatami e futon. Pupazzi che si sedevano a tavola senza le sedie, indossavano kimono e mi raccontavano storie di amore per la natura e per gli altri, valori semplici, e semplificati dalla sceneggiatura per ragazzini, come l'integrità morale, il coraggio e il rispetto. Ambienti domestici dove si intravedeva il piccolo altare casalingo, che ora so essere il tokonoma, dove i fiori erano disposti geometricamente e il tè servito con tutte le cure.
Mentre sgranocchiavo serafica la merenda davanti alla televisione, sui giornali degli anni ottanta sociologi, pedagoghi e psicologi si arrovellavano sulla potenziale nocività dei cartoni giapponesi in tv. Alabarde spaziali, accigliati mazinga, orfanelle dalle lacrime luccicanti, gatti spaziali eccetera eccetera, in effetti avevano spazzato via i vecchi Disney.

In rete su Doraemon si trova di tutto. Tra le tante notizie: un lottatore di sumo, che per i giapponesi è quello che il calcio significa per noi se escludiamo feriti e teppismo, ha scelto come soprannome Doraemon. O che il termine doraemon è entrato comunemente a significare qualcosa capace di soddisfare tutti i desideri. O ancora che il cartone ha finito di esistere con la morte del suo ideatore (ma questo film, allora?) e che il gatto blu è una sorta di santo patrono degli otaku, ovvero degli appassionati ossessivi di manga, anime e cultura pop giapponese. 

In un certo senso, il Giappone produce, serializza, "diventa" i suoi personaggi. Se hai la possibilità di attraversare le strade di Tokyo, o di città meno sfavillanti, non puoi non notare anche un aspetto ludico. La moda, i gesti, i cartelli, gli avvisi in giro, i sorrisi dolci o trepidanti. I bambini in divisa, le ragazze con le minigonne, il gusto en travesti: tutto un mondo in versione gadgets.  Lo stesso "spegnersi" sulla metropolitana dopo una giornata lunga di lavoro per "accendersi" alla fermata giusta, sembra uscito da una storia manga. Come la fissa per il karaoke o il pachinko. Come il parco dove convivono un antico tempio dorato e steccati di plastica che imita il legno. Dove i grandi magazzini prevedono tutte, ma proprio tutte, le esigenze dei clienti, i water sono musicali e fasulle stelle cadenti, proiettate su un mega schermo, permettono comunque di esprimere un vero desiderio. 

Ripongo al volo l'iphone con cui ho fatto la foto nella mia "tasca spaziale", rimetto in moto e canticchio la sigla di Doraemon pensando a Sōseki, nonostante la pioggia che batte sul parabrezza.











mercoledì 5 novembre 2014

Camelia

Una camelia
cadendo ha traboccato
l'acqua racchiusa
(Matsuo Bashō 1644-1694)




Nel Giappone di Bashō la camelia simboleggia l'amore e la vita spezzati. 

Pensando a Brittany Maynard e al suo grande amore per la vita. E alla sua battaglia personale e civile che, traboccata dai social, megafono dei tempi, tracima fuori nonostante tutto. Inonda e sommerge lo sciocchezzaio dei tuttologi, chiusure religiose, certezze ideologiche. Non vi linko le ultime notizie, esternazioni o prese di posizione sulla sua vicenda. Non mi va. Se volete, un vecchio post QUI.


(vita degna)





martedì 4 novembre 2014

Oche

L'ombra caduta sul mare:
i gridi delle oche selvatiche
deboli e stanchi
(Matsuo Bashō 1644-1694)



Leggo del crollo in Borsa del titolo Moncler dopo il servizio di Report di Rai3 di domenica sera (video qui).
Tutte quelle oche - delocalizzate? - maltrattate per imbottire piumini, spiumate vive tre o quattro volte durante l'arco della loro esistenza, quei lugubri lavoranti ungheresi che le "tosavano" velocemente a trenta centesimi al capo in condizioni che ricordavano una favola nera dei fratelli Grimm - pensate al baccano, all'odore, alla fatica, ai maltrattamenti umani e animali - hanno fatto precipitare le azioni del marchio e contribuito a farmi guardare in cagnesco il mio piumone che avevo appena tirato giù dall'armadio.
Che la batosta economica serva a tutelare uomini e oche! 
Aggiungo che ancora più orrore mi fa il pâté de foie gras francese ottenuto ingozzandole forzatamente per ottenerne in quantità industriale e low cost. Non sono vegetariana ma me ne chiedo il senso. 
Chiamiamolo "Mousse di Fegato Cirrotico" e non lo comprerebbe più nessuno. 


(Oche mantovane travestite per sopravvivere.)


lunedì 3 novembre 2014

Farfalla a Pioltello

Sulla grande campana
posata a dormire
ah! la farfalla
(Yosa Buson 1716-1784)




Quanto mi piacerebbe essere una farfalla e volare in una scuola qualsiasi di Pioltello, piccolo comune in provincia di Milano con la più alta concentrazione di bimbi stranieri nelle scuole, dove oltre il 30 % sono figli di migranti.
Svolazzare tra i corridoi quando suona la campanella della ricreazione, ascoltarli quando interrogati. Vederli studiare, litigare e fare pace. O posarmi su capelli liscissimi, crespi, infiocchettati o a spazzola, per planare su merende colorate.  

In Italia uno studente su dieci ha genitori immigrati che arrivano da Romania, Albania, Marocco, Cina, Filippine, Moldavia, India, Ucraina e Perù (notizia qui e qui). .
La lotta contro il razzismo parte dai banchi di scuola e quella per l'integrazione da iniziative illuminate come quella promossa dalle Biblioteche di Roma che offrono una serie di corsi d'italiano e laboratori gratuiti per adulti (info qui).   

Cosa succede di bello nelle vostre città su questo tema?
Condividiamo? 



(Bucuresti mercato di Obor. Biscuiti rumeni buonissimi. Sarati (cracker) nuca (quadrati) e con ovaz (farina d'avena). Vuoi?)



   

venerdì 31 ottobre 2014

Allegri ragazzi morti

All'improvviso
appare un lampo:
paura della morte.
(Issa 1763-1827)




Esiste - ma è il caso di usare proprio il verbo 'esistere'? - una piccola galleria di semi-divinità giapponesi legate al mondo dei morti di totale secondo piano, micro spiriti in perenne sospensione tra il qua e il là, che non riescono a trovare la quiete definitiva ma che su di me hanno da sempre un fascino particolare. 
Si tratta degli spiriti dei bambini mai nati (mizuko), di coloro che muoiono senza discendenza (muenbotoke) e dei morti vendicativi (goryo) e svolazzano, incerti sulla loro collocazione definitiva, nell'immaginario giapponese da secoli. 
A questi spiritelli inquieti e un francamente po' sfigati, e anche un po' buffi perchè ci riportano alle faccette dei cartoni animati con gli occhi a crocetta, sembra essersi ispirato Davide Toffolo, leader della band indie-rock Tre Allegri Ragazzi Morti. 





Non guardarmi cosi perchè ho quindici aaaanni/ non ho avuto il tempo di diventare rockstar/ 
in Italia i tempi sono elefantiiii/ chi ce la fa non ascolta la mia muuusica.

Non guardarmi così perchè ho quindici anni/ Sono io quello di cui parla la tv:/

dissotterrato dal giardino dopo quasi ventaaaaannii/ riconosciuto dai denti e dai capelli bluuu.


(clicca e ascolta la mia preferita)

Sono andata a vedere Musical Lo Fi (vedi date qui) in un teatro romano qualche giorno fa perchè solo con Toffolo è possibile entrare in quel mondo introflesso e un po' emo, fatto di sbuffi, incertezze e lacrime improvvise, che va dai quindici ai diciotto anni. 
Ci sono entrata. 
Spirito non visto, ho spiato da vicino lo spettacolo del diventare grandi: l'amico del cuore, il concerto da raggiungere, il sesso da capire. L'amore. La vita e la morte. La mancanza assoluta di sfumature. Le paure e i complessi. 
E sono tornata la quindicenne contro gli adulti, i veri morti viventi che non capiscono niente. 
Meglio chiudersi dentro la camera, cuffie a palla. Meglio morire. E fare del teschio, tatuato, stilizzato, disegnato sul diario, indossato sulla maglietta o sulla maschera della band che adoriamo, il brand della sopravvivenza. L'icona della mia vita.
Davide Toffolo concentra quel buco nero invisibile, che comprende tutti i giorni che dura l'adolescenza di ognuno, nei soli quattro minuti di una canzone  . 
E canta e disegna quel non esserci ancora, o non del tutto. Dolcemente ci parla di esseri ancora a metà, di piccole anime perse sospese tra i bambini e gli adulti. 

Alle anime perse, dovremmo dare un tetto/ai corpi senza pace offro il mio letto/di storie come questa ne ho da raccontare/che questa notte nera faremo passare
  

Nello spettacolo la trovata di Toffolo nella parte di se stesso che osserva la scena da fuori, come da un aldilà atemporale ma a portata di ricordo, rockstar un po' invecchiata e un po' ingrassata, è "la" trovata. Fa da specchio alla sua cover in scena, ci canta un po' insieme e osserva il suo pubblico in silenzio, lo stesso pubblico quindicenne da venti anni.
Ed è sempre per un gioco di specchi che ci regala canzoni struggenti, romanzi in forma di graphic, schizzi autobiografici cantati o a china. Ci cade dentro e ne spunta fuori con quel suo sguardo malinconico e matto sulle cose che mi piace e mi conquista. 
Un po' yokai, un po' Alice. 


E allora anche io, insieme a lui, voglio festeggiare la vita parlando di morte. 
Succede con il "lampo" nello haiku di oggi, succederà per chi festeggerà stanotte Halloween, succede nel malinconico mondo di tutti gli allegri ragazzi morti che, sparsi nelle loro camerette, aspettano di diventare adulti da tantissimi anni. 

Dedicato a chi nel 1979 aveva 15 anni e oggi 17. 


(clicca per il video LIS)









Esce in questi giorni, in occasione dei venti anni della band, "Tre allegri ragazzi morti" edito da Rizzoli Lizard. Aggiungo di andarvi a ripescare di Davide Toffolo "Graphic Novel is dead", sempre per lo stesso editore, e di farvi un giro in rete sulle tante cose che fa.