Da qualche
anno, in rete, chiede aiuto ogni giorno a un haiku per
illuminare con una luce sghemba e sorprendente una notizia di cronaca,
un’esperienza personale, un incontro, un viaggio.
Ora ha intensificato questa sua intimità in un libro conciso e prezioso,
una meditazione narrativa che si intitola Haiku e sakè. In viaggio con Santōka (add editore, pp. 157, 13 euro).
Quando dico “poeti giapponesi” e “haiku” non dovete pensare a anime pallidamente
acquarellate, in posa da innocentine.
Non per caso Susanna Tartaro, fra tutti gli autori di haiku ha scelto di
farsi guidare soprattutto da Santōka (1882-1940), figlio di madre suicida, tentato
suicida lui stesso, marito e padre inadempiente, alcolista cronico,
camminatore inquieto, abitante dell’altrove radicale, dell’altrove a ogni
costo, dato che per lunghi periodi della sua vita non ha fatto altro che
spostarsi, ogni giorno, mendicando da un villaggio all’altro, spostarsi ogni
momento, da un passo all’altro.
Nelle sue poesie, nella sua vita e in quelle degli altri grandi maestri
della poesia giapponese passati e recenti, Susanna Tartaro ha trovato una
nicchia spaziotemporale, non per evadere dal presente ma per affrontarlo in
maniera diversa: per affrontare il mondo, l’Italia, Roma, l’attualità, con
uno sguardo straniato, più esigente, più preciso.
«Con Santōka come guida mi permetto di procedere in modo poco nipponico
perché questo nostro cammino insieme non vuole attraversare il mondo di
lacche lucide, fiori di loto e peonie stilizzate, ma solo il nostro. Passiamo
per il mondo imperfetto, quello di oggi, Quello in cui viviamo, quello delle
guerre, dei razzismi. Quello dove ci si alza dal letto per andare a lavorare,
si pensa a cosa fare per cena, ci si lascia, ci si fidanza» [pp. 64-65].
Difficile trovare qualcosa di più incompatibile fra Roma e un haiku. Si
può dire che l’autrice, con gli haiku, abbia individuato il perfetto
contrario di Roma, città frastornante, fitta, inzeppata di sé stessa, senza
valvole di sfogo.
Non è una fuga, la sua. E infatti, pur seguendo devotamente il suo monaco
poeta, a volte sbotta rinfacciandogli la propria situazione:
«Vorrei mostrare a Santōka i romani alla guida, altro che cammino
esistenziale! Mi piacerebbe sapere che cosa pensa del traffico, mostrargli il
caos, i sorpassi fatti con i denti digrignati, i posteggi in tripla fila, i
limiti di velocità sfidati anche agli incroci. Fargli ascoltare il mantra
perpetuo della tangenziale» [p. 40].
Non so se McLuhan si sia mai occupato di haiku, ma forse avrebbe detto
che, fra i generi poetici, sono il medium più freddo. Caldi sono i media che fanno
tutto da sé, e lasciano poco lavoro allo spettatore. Con l’haiku invece è il
lettore che si scalda, perché deve metterci un sacco di cose. Ci sono
pochissime parole, manca praticamente tutto: e quindi chi legge quei tre
versi monchi si ritrova a proiettarci dentro molto di sé e di ciò che gli sta
intorno. Così piccoli, così angusti, gli haiku sono le poesie più accoglienti
che esistano.
Oltre alla ben nota struttura metrica, hanno regole e costrizioni formali
e tematiche. «Prevedono quasi sempre un riferimento alla stagione (kigo)»,
ricorda l’autrice; in più, «l’uso sapiente delkireji, ovvero un
drastico ribaltamento concettuale espresso con l’ultimo dei tre ku [versi],
spesso offre al lettore una piccola sorpresa finale».
Ebbene, facendo finta di niente, senza dirlo ad alta voce, questo libro
contiene anche gli haiku di Susanna Tartaro. Che non ha nessuna ambizione di
poetessa. È un’autrice di haiku come lo siamo potenzialmente tutti, solo che
per esserlo pienamente a noi manca il passo decisivo, l’ultimo ku, il ribaltamento concettuale del kireji.
A cosa mi riferisco? Sto parlando del cellulare, delle foto che facciamo
quando vogliamo catturare un istante che merita di essere ricordato. La foto
è il kigo, è il riferimento alla stagione. Solo che il
cellulare, da solo, il kireji non lo può trovare. Tutto quello che riesce a fare è archiviare
automaticamente la foto, chiamandola IMG_01865.JPG, o DSC09435.JPG. In questo
libro, ogni tanto, ci sono foto di Susanna Tartaro: immagini senza pretese,
fatte col cellulare; momenti semplici, numinosi, banali, incantevoli,
ordinari, oracolari: momenti veri. Il kireji dov’è? Nella didascalia dell’autrice. Per esempio
“Africa a sorpresa” scritto per commentare una foglia caduta sul marciapiede,
che assomiglia effettivamente all’Africa; “Samurai romani”, sotto l’immagine
di pendolari dell’Atac che aspettano fiduciosi la metro in ritardo; “Vermeer
di periferia”, per etichettare una stanza illuminata, colta al volo dalla
strada; “Amore estivo” sotto due pesche che sembrano attrarsi deformandosi
reciprocamente, una di fronte all’altra, sul piatto al centro della tavola...
Finita la lettura, viene da stringere questo libro al petto, con
trasporto e gratitudine: perché il gentile, drammatico e scombiccherato
Santōka è diventato una parte di noi. E Roma, l’autoreferenziale e
tautologica Roma, da oggi può contare su una nicchia spaziotemporale, in cui
prendersi una pausa da sé stessa e respirare qualche inestimabile istante di
verità.
………..............................……......
pubblicato da Tiziano Scarpa su Il primo amore nella
rubrica poesia il
18 settembre 2016
|
Una poesia, una notizia e una foto per guardare alla realtà scandendola in tre momenti, come succede nel poco spazio dei tre versi di un haiku giapponese. La poesia è nelle cose di tutti i giorni. "Cuscino di pietra/accompagno/nuvole" (Santōka 1882-1940)
"Il contrario di Roma" di Tiziano Scarpa
Iscriviti a:
Post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento