sabato 10 novembre 2018

Adulti futuri


Bambina mia,
Per te avrei dato tutti i giardini
del mio regno, se fossi stata regina,
fino all’ultima rosa, fino all’ultima piuma.
Tutto il regno per te.
E invece ti lascio baracche e spine,
polveri pesanti su tutto lo scenario
battiti molto forti
palpebre cucite tutto intorno.
Ira nelle periferie della specie.
E al centro,
ira.
Ma tu non credere a chi dipinge l’umano
come una bestia zoppa e questo mondo
come una palla alla fine.
Non credere a chi tinge tutto di buio pesto e
di sangue. Lo fa perché è facile farlo.
Noi siamo solo confusi,credi.
Ma sentiamo. Sentiamo ancora.
Sentiamo ancora. Siamo ancora capaci
di amare qualcosa.
Ancora proviamo pietà.
Tocca a te,ora,
a te tocca la lavatura di queste croste
delle cortecce vive.
C’è splendore
in ogni cosa. Io l’ho visto.
Io ora lo vedo di più.
C’è splendore. Non avere paura.
Ciao faccia bella,
gioia più grande.
L’amore è il tuo destino.
Sempre. Nient’altro.
Nient’altro. Nient’altro.
("Bambina mia" di Mariangela Gualtieri)


Nel mio mondo impossibile, i ragazzini li farei andare a scuola da Cesare Ronconi. Sarebbe una classe colorata, dove si può portare un cappello sulla testa come quello che ho visto sui bambini del suo laboratorio. Per ognuno un cono di cartoncino colorato da lui pensato, con la punta di fiori in boccio o di rametto fronzuto, un bel cappello allegro, che protegga bene le idee e le faccia pure germogliare. Un copricapo con cui uscire tutti insieme per le vie del centro, non importa se si ammacca o perde petali, dopo tanto lo rifacciamo. Mentre si preparavano ho capito che quelli lì, quelli sotto quei cappelli di quel giorno a Cesena, da grandi, saranno belle persone, ci avrei scommesso. Saranno i futuri vicini di casa a cui bussare, saranno un bravo medico o una brava maestra, e farci quattro chiacchiere, o confidargli un tormento, per qualcuno un giorno potrebbe essere una fortuna. Diverranno adulti dal senso civico, e rispettosi degli altri, simpatici, e tolleranti e conosceranno la storia, la geografia e anche la poesia.


(serra creativa)


giovedì 8 novembre 2018

Una telefonata


Rumore d'onde
che vanno e vengono
così lontano da casa
(Santōka 1882-1940)

Prima Pagina sta andando in onda ed io sono in ascolto, come tutte le mattine, mentre faccio colazione. Ora ha iniziato a parlare un ascoltatore, Fulvio di Trieste, lo devo dire, lo devo dire a tutti, almeno uno, avrà pensato, almeno uno capirà, e lo immagino mentre in un lampo decide di dirla questa cosa importante che da giorni sobbolle in lui, lo vedo digitare il numero verde con attenzione, pulsando ogni tasto a fondo per paura di sbagliare e di dover ricominciare, il tempo è così poco e ancora meno sarà quello in onda quando toccherà a lui. Prego  signor Fulvio, è il suo turno, ecco, sono Fulvio di Trieste, volevo solo dire, si capisce? la linea è disturbata, ora va meglio, prego, sì son Fulvio di Trieste e volevo dire che una bambina di nove anni, un'alunna di mia moglie, in classe ha raccontato che è arrivata qui, qui a Trieste, da Mosul dove era nata, è arrivata a piedi e che la sua sorellina più piccola era in braccio al padre e che la mamma camminava accanto a loro tre ma era sotto shock per i bombardamenti, ecco volevo dire solo questo, che questa è gente che arriva scappando da tragedie e noi che facciamo? Mettiamo pseudo paletti, complichiamo loro l'esistenza invece di accoglierli, ecco, tutto qui.
Grazie Fulvio, buona giornata.



(comunità)



mercoledì 31 ottobre 2018

Preghiera per i morti, preghiera per i santi


Ventisette ossa,
trentacinque muscoli,
circa duemila cellule nervose
in ogni polpastrello delle nostre cinque dita.
È più che sufficiente
per scriver Mein Kampf
o Winnie the Pooh.
("La mano" di Wislawa Szymborska



Alla fine siamo fatti di ingredienti semplici. Ossigeno, carbonio, idrogeno, azoto, calcio, fosforo, sodio, magnesio, ferro, alluminio, tutta roba riciclabile.
Siamo questo. Siamo il mucchio ambulante di tutto questo. Mio padre si chiamava Achille, è morto dieci anni fa, tra il 2 e il 3 di novembre, nella settimana dedicata ai morti e ai santi, giorni grigi con lame di luce, il suo ricordo ne scalda i colori. Era vivo, un giorno, e tanti tanti giorni lo è stato, poi non più, tutto qui.
Lo risento nell'odore del sigaro di qualcuno che fuma, le da' fastidio, lo posso spegnere se desidera, no no, non si preoccupi, affatto, mi piace il profumo del toscano. 
L'ho rivisto. Una volta, nell'orecchio di un passante, anzi più precisamente, nel pezzo dell'orecchio che usciva fuori da un cappello, una coppola calcata su una faccia che non era di mio padre, mannaggia. L'avrei fermato, signore lo sa che... ma non importa. Tanto lo rincontrerò, mio padre, una prossima volta, come mi è già successo al cinema. La mano poggiata sul bracciolo condiviso, bianca e ben proporzionata, stesso modo di distenderla, e il pollice, signore lo sa che lei ha...
E' un modo di pregare il mio santo piccolo, che non fa miracoli e che non ci credeva neanche.


(l'Aldiqua)









    

martedì 30 ottobre 2018

Allarme meteo



Allora voi, che volgerete
lo sguardo verso di noi dalle vette
dei vostri tempi splendidi, come chi scruta una valle
che non ricorda neppure di avere percorsa:
non ci vedrete, dietro lo schermo di nebbie.
Ma eravamo qui, a custodire la voce.
Non ogni giorno e non in ogni ora
del giorno; qualche volta, soltanto,
quando sembrava possibile
raccogliere un po’ di forza.
Ci chiudevamo la porta
dietro le spalle, abbandonando
le nostre case sontuose
e riprendevamo il cammino, senza meta.
("A quelli che verranno" di Fabio Pusterla)


Che tempo strano, vero? Un tempo fatto di tutti i tempi, sole e pioggia, freddo e caldo insieme, Véstiti a strati e usciamo, ombrello e sandali come equipaggiamento, in caso, portati un golf.
Che mondo lasciamo, che mondo strano, questo, di allarmi e invasioni, di freddo e di caldo, di nero e di bianco.

(bacio sulle rovine)




venerdì 26 ottobre 2018

La mia festa del cinema


"Non possiamo ricominciare ancora.
Soltanto possiamo ancora finire".
"Ma non abbiamo mai finito".
"Oh sì, non crederlo.
Abbiamo finito molte e molte volte.
Non una volta sola.
E ora possiamo finire di nuovo.
E ancora e ancora.
Senza un nuovo inizio"
(da "Cairn" di Enrico Testa)

Come una sceneggiatura questi versi d'amore, come il dialogo di un film di cui abbiamo perso l'inizio.
In questi giorni di trasmissioni dalla Festa del Cinema di Roma, ho scoperto l'opera di Maurice Pialat, la cui retrospettiva vado inseguendo di sala in sala trepidante e turbata, per quanto il suo lavoro mi colpisce. Ma non è di questo mio turbamento che volevo parlarvi, non di Pialat, che bisognerebbe recuperare e non basto certo io a parlarne, ma di quei momenti sospesi prima della proiezione di qualsiasi film, quelle sigle animate che compongono il logo di produzione, quelle con la musica sincopata, o rarefatta, in primo piano. Pochi secondi. I marchi machi di Titanus, Lux, 20Century Fox, le note jazz anni settanta di Cineriz, il Giappone di Mikado. Paramount con il monte innevato, Columbia con peplo e torcia di luce. Leoni, palloncini, un abat jour che saltella, una falce di luna sul lago che scintilla. E quante stelle in quei secondi, una pioggia di stelle stilizzate al computer o disegnate non importa, lampeggiano tra i marchi, saettano i loro raggi di luce sul logo, il tondo della Gaumont, i Media Associati, i Warner, i Dreamworks.
È l'attesa per qualcosa di meraviglioso che si chiama cinema, tutti insieme nella stessa sala, in quella stessa ora, seduti su poltrone di velluto ad aspettare.


(Come un fotogramma)