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lunedì 4 luglio 2016

Albero della vita

Con un bel pino
hai creato
il luogo della tua tomba?
(Ogiwara Seisensui 1884-1976)


Il giorno dopo la strage di Dacca i giornali contano i morti e disegnano un nuovo identikit sociologico dei terroristi: da "ragazzi bene" a kamikaze da leggere come "il nuovo estremismo radicale e sanguinario non nasce solo dall'emarginazione".

Faraaz Hossain, era uno studente universitario bengalese, musulmano, che aveva deciso di passare una serata spensierata con due care amiche (leggi notizia QUI)I terroristi decidono di risparmiarlo perché sa citare a memoria i sura del corano (la crudele prova a quiz a cui sono sottoposte le vittime) ma morirà comunque perché decide di restare accanto alle sue amiche.

Hossain era un ragazzo religioso che studiava Economia in America. Deduco, un figlio dell'upper class bengalese, coetaneo dei suoi carnefici.

Un bel pino sul luogo del sacrificio di Faraaz come ricordo del suo valore morale e civile. 
All'ombra di questo albero della vita, religione e classe sociale, non c'entrano nulla.


(RIP)

domenica 15 settembre 2019

Il mio libro


Spuntano i germogli
al tronco d'un grande albero
poggio l'orecchio
(Hosai 1885-1927)

Questo è l'haiku a cui mi riferisco nel pezzo uscito ieri su "Il Fatto". Lo dedico agli ascoltatori, a chi fa la radio e a chi la sente e a chi sa quello che ha significato per me questo viaggio nelle vite degli altri. Yuppi!
Ed ecco il testo per chi l'avesse perso:

Ho sempre amato la radio. Da bambina puntavo la sveglia alle 5.45 per ascoltare il bollettino del mare dalla mia radietta a forma di scatola che tenevo sotto il cuscino. Immaginavo un capitano vero, con tanto di barba, cappello e timone che, ritto sulla tolda della nave, leggeva agli ascoltatori le sue misteriose informazioni: Libeccio, Forza 8, Stretto di Sicilia, 10 nodi, Mar Libico. In quel limbo tra sogno e realtà bastava solo aspettare sotto le coperte: mamma e papà si sarebbero svegliati, avrei fatto colazione e infilato la cartella, pronta per affrontare una nuova giornata. Magari il famoso libeccio avrebbe soffiato proprio quel giorno, chissà
Dalla voce professionale del bollettino di Radio Rai sono passati decenni e adesso in quella scatola ci lavoro. E così ho finito per amare anche la radio che non va in onda. La lotta al montaggio per un minuto irrinunciabile, il turno di registrazione che salta, le riunioni di redazione, la soddisfazione di una sfumata” giusta o di un taglio” impercettibile, lattesa di un ospite che non arriva e intanto la diretta procede inesorabile verso il precipizio… Amo fare la radio, costruire una scaletta, organizzare gli speciali dai festival o da posti meno fotogenici come una mensa per i poveri, un carcere, un quartiere difficile. 
Un giorno di qualche anno fa chiamò un ascoltatore per partecipare alla diretta. Nulla di nuovo, la radio non è forse per chi lascolta? Cosa c’è di straordinario in una telefonata per rispondere a un quiz? Eppure quel giorno, un giorno come tanti di qualche anno fa, quando lascoltatore fu collegato per andare in onda, dentro di me scattò qualcosa.
Da dove chiama, Michele?” gli fu chiesto. Da un alpeggio, faccio il pastore, rispose. Cera poco tempo, il segnale orario incombeva, il conduttore raccolse la risposta e lo salutò. Da un alpeggio. Un pastore. Un pastore che sente la radio, mi ripetevo, da un alpeggio. Uno che ci telefona e dice: la risposta per me è Autodafé di Canetti, mentre in sottofondo si sentono belati e campanacci. Avrei voluto piantare tutto e andare lì in Piemonte, tra quelle montagne che dun tratto mi sono apparse davanti agli occhi ascoltando il signor Michele. Volevo conoscere la sua storia, capire chi fosse, come fosse arrivato lassù in quellalpeggio e da dove. Ecco, è stato allora che ho scoperto per la prima volta cos’è un ascoltatore, intendo la persona ascoltatore in carne e ossa. Uno che poggia la radio sempre sullo stesso sasso perché solo lì trova la sintonia giusta, come potevo non andare a conoscerlo? E così ho copiato il suo numero di telefono e lho messo da parte, senza sapere ancora cosa farne.
Fino a quel momento per me gli ascoltatori erano una comunità astratta. Grazie a Michele ha cominciato a girarmi in testa unidea diversa: potevo andare io da loro, provare a restituire un corpo allorecchio, farli immaginare, farli sentire, renderli visibili. Conoscerli nelle loro case, tra i loro affetti, raccogliere le loro esperienze di vita, magari proprio davanti agli apparecchi dai quali ci ascoltano ogni giorno. Dopo Michele di Mondovì ho incontrato Stefano, un ex sacerdote ora portiere di uno stabile romano, e Ivo, anche lui romano, un vecchio rugbista amante della rassegna mattutina dei giornali, e Adriano a Castelfranco Veneto, e Armando che insegna scacchi in una scuola media di Castellamare di Stabia, per me un vero samurai, e Valeria, di nuovo a Roma, e poi Angela e Angelo di Andria, e Paola a Brescia, Lisa e Francesco a Levico Terme, e Vinni ad Alghero. Ho provato a forzare la loro ritrosia, a farli parlare. Forse, chissà, ho imparato la loro larte: drizzare le antenne, mettersi in ascolto. E’ stato un lungo viaggio, per certi versi ho compiuto un giro completo: è come se fossi tornata ad ascoltare la mia radietta a forma di scatola.
Continuo a pensare che la radio contribuisca non solo a raccontare il mondo ma anche ad ascoltarlo, nel suo rumore e nei suoi silenzi. In un'antica poesia giapponesequalcuno poggia lorecchio sul tronco di un albero per sentire il germoglio, è unazione così bella. Attiene al rispetto, allattesa, comporta tolleranza, riflessione. E’ una disciplina, e come tale richiede tempi lunghi, meno contratti. Così, anche se intorno tutti strepitano, resiste una comunità invisibile e ricchissima, unarcadia di persone capaci di ascoltare chi sta dicendo qualcosa.
("Ascoltatori. Le vite di chi ama la radio" edizioni add)

venerdì 22 febbraio 2019

Sms a Radio3


Spuntano i germogli
al tronco d'un grande albero
poggio l'orecchio
(Hosai 1885-1927)


Loredana Lipperini scriveva ieri sera su FB "la platea dell'odio si allarga" per alcuni messaggi antisemiti arrivati come schizzi di fango anche sui nostri pomeriggi in onda. Capivo la sua frustrazione, lo sgomento che leggevo negli spazi bianchi tra le sue parole del post era anche il mio.
Ma continuo a pensare che Radio3 contribuisca non solo a raccontare il mondo ma anche ad ascoltarlo, nel suo rumore e nei suoi silenzi. E che l'ascoltatore di Radio3, come accade in questo haiku, poggi il suo orecchio per "sentire" germogliare qualcosa. A quanto ci si assomigli, di qua e di là del microfono, a quanta responsabilità abbiamo noi che la facciamo, a dove sia possibile un confronto sulle cose se non in quell’universo della radio dove lavoro, e in quale posto il rapporto con il pubblico è concreto e costruttivo come sulle nostre frequenze.
Non so, a me messaggi di quel tipo, - sono pochi rispetto alla mole degli altri - lo ammetto, mi turbano ma non mi sorprendono. Li considero "fisiologici" poichè noi, di Radio3 intendo, noi tutti, chi la fa e chi la ascolta, abitiamo questo mondo qui, dove tutti dicono e ripetono tutto, senza freni o consapevolezza, con aggressiva ottusità. Il mondo dei porti chiusi, di maestri razzisti, dove si vota con un clik e si dicono cose a caso, e orgogliosamente, col cipiglio dell'incompetenza. Quindi, alla fine, e purtroppo, non sono sorpresa più di tanto. E Radio3, con i suoi ascoltatori, mi sembra ancora il migliore dei mondi possibili.

(Abraham Yehoshua in ascolto)

giovedì 17 luglio 2014

Libro in valigia

Meraviglia del mondo
le ali di farfalla-
formiche le trascinano
(Seisensui Ogiwara 1884-1976)

Con Carlo D'Amicis, con il quale da anni condivido fisicamente lo spazio di una redazione e le scelte editoriali di una trasmissione culturale, questa volta entro in un bosco.
Qui si svolge la storia che mi racconta - o devo chiamarla favola, mito - di questo suo "Quando eravamo prede" appena uscito per minimum fax. Tutto è "meraviglia del mondo" in questo romanzo dove Toro e Formica parlano, Alce si ubriaca e Farfalla ha "lunghe ciglia e labbra disegnate" e ci avverte:

"Non abbiamo sempre detto che niente, a questo mondo, è più perfetto della perfezione animale?"
"Non siamo più animali, Agnello".
Fece una breve pausa. Poi aggiunse: "Né siamo ancora esseri umani".
"E cosa siamo, allora?"

Dopo quello segnalato la scorsa settimana (leggi QUI) mi imbatto nuovamente in un romanzo dove sacro e biblico sono elementi importanti della narrazione. In questo "Quando eravamo prede" la scrittura asciuttissima restituisce al lettore un' essenzialità alta, e allo stesso tempo "altra", che definisce perfettamente l'atmosfera edenica di un bosco ai confini di uno strano disegno divino.





D'Amicis è lo scrittore dallo sguardo bambino che - ecco l'elemento che me lo fa piacere- perde l'innocenza parola dopo parola, e che guarda a un passato amniotico comune con nostalgia ed efferatezza. Alcune immagini dei suoi libri mi sono entrate nella testa con una forza subdola e delicata senza lasciarmi scampo. Il ticchettio dei tacchi a spillo di un libro di tanti anni fa risuona ancora nel rapporto tra Alce e Cagna di questo libro. Agnello, e il suo essere vinto come Alce, mi diverte sempre e ritorna, inquietandomi ogni volta. Questo romanzo è corale, a parlare sono strani esseri in divenire, creature di passaggio a metà tra l'animale e l'umano, che possono anche diventare un albero. 
L'autore-creatore prende in mano quella stilla, quel cromosoma, quel soffio vitale, quella costola che unisce e divide i mondi, umano e animale, e la offre al lettore con la serietà di un bambino che stacca un boccone dalla merenda per offrirlo a un adulto. 
Una specie di comunione per gioco dove tutti giochiamo a fare l'Agnello sacrificale.   

E' un gran bel libro, questo, dove siamo cacciatori e prede e il limitare del bosco fa paura e l'amore trionfa.
E' intenso e filosofico. Religioso e carnale. 
Buona lettura!








                   

giovedì 5 aprile 2018

Il sogno di Mimmo



È tutto così semplice,
sì, era così semplice,
è tale l’evidenza
che quasi non ci credo.
A questo serve il corpo:
mi tocchi o non mi tocchi,
mi abbracci o mi allontani.
Il resto è per i pazzi.


Mimmo mi parla fitto fitto e mentre lo fa un po' sorride. Qualcosa capisco, qualcosa no, ma non importa. E' piccolo di statura - scendendo dal bancone del bar ancora di più - sembrerà per sempre un ragazzino, penso, eppure, se sono dieci anni che lo conosco e che vive qui in Italia, quanti ne avrà, quaranta, cinquanta, trenta? Mimmo che è partito dal Bangladesch, lasciandoselo alle spalle per sempre insieme con il suo il nome impronunciabile per noi e che ha tramutato in Mimmo. 
"Solo Mimmo. Più fascile pur tutti capire mio nome e chiamare me, vero?" 
Si asciuga le mani sul canovaccio e mi mostra dove fra pochi giorni serviranno gli aperitivi.
"Là fori, quando fa caldo. Pessetti prosciutto e pissette, cose da magnare bbone a poco presso pe' aperitivo. Qui, mettiamo tutto qui" e, dicendolo, mi mostra l'acciaio lucido del bancone vuoto. Lo ascolto e mi appaiono tutti gli stuzzichini e le bibite ghiacciate che preparerà, e se mi concentro posso sentire le chiacchiere dei futuri avventori che per noi, per me e Mimmo, in quel momento, ci avremmo giurato, saranno tantissimi. Uno o due milioni.
È tutto così semplice...
Mimmo sogna. E mentre lo fa mi dice di guardare là sotto l'albero dove si sarebbero finalmente aperti i due ombrelloni. "Ora biove sempre" dice con la bocca all'ingiù. È tutto così semplice... Sogna il sole e gli affari del "titulare" che vanno alla grande e lui, finalmente, col cuore in pace. Sogna i panini che preparerà , le olive dentro i bicchieri con le goccioline sul vetro, le mance e i sorrisi dei clienti soddisfatti. 
Sogna una bella stagione anche per lui.


(possibilità)




mercoledì 21 giugno 2017

Solstizio d'estate


E cresce, anche per noi 
l'estate 
vanitosa, coi nostri 
verdissimi peccati;

ecco l'ospite secco 
del vento, 
che fa battibecco 
tra le foglie della magnolia;

e suona la sua 
serena 
melodia, sulla prua 
d'ogni foglia, e va via

e la foglia non stacca, 
e lascia 
l'albero verde, ma spacca 
il cuore dell'aria.
("D'estate" di Carlo Betocchi)


Oggi primo giorno d'estate, l'estate vanitosa. Ed è anche il primo giorno di maturità, esame a cui la sinistra del PD, con il suo arcipelago di minoranze tutto da scoprire come fosse una meta estiva, si sta preparando da mesi.

(il cuore dell'aria)








giovedì 28 maggio 2015

Figli

Non hanno figli
un uomo e una donna
bruciano bruchi
(Momoko Kuroda 1938)




Notizia di oggi. In Italia, donne più vecchie (età media parto 32 anni) e uomini con meno spermatozoi (50% in meno in cento anni), generano... un calo delle nascite (notizia qui). 
Oltre ai numeri, dati sociologici e welfare sono il corollario di una notizia da molti considerata presagio della imminente scomparsa degli "italiani doc". 

A sopracciglia alzate e bocca all'ingiù, alcuni prefigurano un popolo nuovo e misterioso che popolerebbe tra non molti anni, e comodamente, la "loro" penisola. Accorati, disegnano l'identikit del nuovo italiano medio che prenderà il "loro" posto: occhi mandorlati, pelle un po' bianca e un po' marroncina, capelli impettinabili, crespi o troppo lucidi e spioventi.
E non capiscono la grande opportunità!
Considerate il sovraffollamento dell'India dove sparano figli ogni minuto, considerate la Cina e come stanno combinati! Scusate, ma non dicevate, che sì che non siete razzisti, ma che in Italia stiamo stretti e che non c'è più posto? E allora?
Ci pensa la Terra.
La Terra ovvero "L'aiuola che ci fa tanto feroci" (Dante. Paradiso XXII), risolverà alcune cose che dai tempi di Dante non trovano soluzione. Tutto da sola - si muove lentamente ma lo sta facendo - sta mettendo fine alle migrazioni, al razzismo, allo spazio nelle città. 
E intanto? 
La silenziosa coppia sterile di Kuroda, in silenzio, sta pulendo il suo giardino, bruciando bruchi per disinfestare un albero. 
Mi sembra bellissimo.


(Nursery)









mercoledì 24 aprile 2019

Presenze


C'è come un dolore nella stanza, ed
è superato in parte: ma vince il peso
degli oggetti, il loro significare
peso e perdita.

C'è come un rosso nell'albero, ma è
l'arancione della base della lampada
comprata in luoghi che non voglio ricordare
perché anch'essi pesano.

Come nulla posso sapere della tua fame
precise nel volere
sono le stilizzate fontane
può ben situarsi un rovescio d'un destino
di uomini separati per obliquo rumore.
(da "Documenti" di Amelia Rosselli)



Mi piace la luce del frigo, l'anta liscia di un armadio, quando attacco la lavastoviglie mi piace il suo gorgoglio. I mobili e gli elettrodomestici per me sono amici, non proprio amici amici, rassicuranti presenze? Amelia Rosselli che sentiva le voci nei cassetti o dietro un divano, temeva gli oggetti. Io, poetessa banale, vorrei almeno qui, per una volta, oggi, ringraziarli.


(luce quotidiana)



martedì 14 agosto 2018

Può capitare




Sei in piedi alla finestra.
C’è una nube di vetro a forma di cuore.
I sospiri del vento sono caverne in ciò che dici.
Sei il fantasma sull’albero di fuori.

La strada è muta.
Il clima, come il domani, come la tua vita,
è in parte qui, in parte per aria.
Non puoi farci niente.

La vita tranquilla non dà preavvisi.
Consuma i climi dello sconforto
e compare, a piedi, non riconosciuta, senza offrire nulla,
e tu sei lì.
("La vita tranquilla" di Mark Strand)


Può capitare e mi è capitato proprio questa mattina. In motorino, verso la redazione, lungo la solita strada e mi è successo: tutti i semafori segnavano il verde. Come un saluto, come un viale alberato, come una doppia fila di ballerini al passaggio della diva.
Sono sfilata beatamente come se tutto fosse possibile. Ero lì.
La strada è muta.
Il clima, come il domani, come la tua vita,
è in parte qui, in parte per aria.


(rosso verde giallo)


lunedì 23 novembre 2020

Paul Celan

Filamenti di sole
sopra lo squallore grigionero.
Un pensiero ad altezza 
d’albero s’appropria il tono
che è della luce ancora
vi sono melodie da cantare
al di là degli uomini.
(In “Svolta del respiro” di Paul Celan, trd. Giuseppe Bevilacqua)

Ieri ci siamo rifocillati d’aria e luce. Abbiamo preso la macchina puntandola verso una campagna vicina, pochi chilometri - non abbiamo bisogno di distanze ma di vicinanze - e iniziato la passeggiata. Il Tevere fluiva nel suo letto naturale ancora ignaro del traffico e dei ponti di marmo, e gli aironi puntellavano l’acqua con zampe spillo. Un viale di querce, poi di canne, la terra morbida sotto le suole e le pecore che si spostavano come nuvole sul cielo verde, spazzate via da cani ruvidi che ci avvisano di qualcosa abbaiando. La svolta del respiro per noi.


                                                                   (Paul Celan 1920-2020)



giovedì 26 ottobre 2017

L'editor samurai


La guardia medica
si risveglia sonnolenta
e colpisce la mosca
(Shiki 1867-1902)


So che Severino Cesari, uno dei più grandi editor ed esperti di editoria, amava gli haiku da un suo messaggino che mi ha fatto fare qualche piroetta di gioia, e per giorni, e che mi sorprese qualche mese fa.
Se dovessi pensarlo come un poeta di haiku, Cesari lo paragonerei al monaco-samurai Shiki, l'haijin che praticava lo zen e conosceva le arti marziali. Pensandoci ora, i suoi post avevano molte affinità con il mondo del maestro zen vissuto alla fine del diciannovesimo secolo; la forza d'animo - anche Shiki era molto malato -, la grande cultura e raffinatezza intellettuale, le intuizioni letterarie (è di Shiki l'invenzione dello haiku moderno), la forma breve e la descrizione di uno stato d'animo attraverso qualcos'altro (un frutto, una stagione, un raggio di sole). E infine la condivisione, tipica dei maestri.
Nel micro cosmo di un haiku di Shiki potevano trovare luogo un vasetto con un fiore, il sole alla finestra, i kaki amatissimi, le medicine, il paravento colorato. Tutti personaggi di un mondo sempre più piccolo e sempre più amato.
Come il pino Achille, l'amico albero con cui Severino dialogava e di cui ci raccontava quando era ricoverato in ospedale.
L'ultimo post si chiude con un po' di ottobre dentro, il mese della dolcezza e dei colori caldi. 
Il suo kigo per salutarci.


(RIP)







mercoledì 27 dicembre 2017

ius sóla


(...)
Intanto i piroscafi che dividono orizzonti dichiarano
Noi perduti;
Trovati solo
In opuscoli turistici, dietro ardenti binocoli;
Trovati nel riflesso blu di occhi
Che hanno conosciuto metropoli e ci credono felici qui
(...)
(da "Preludio" di Derek Walcott)


Metropolitana domenica pomeriggio, sulla banchina. Nell'attesa, guardavo le teste di capelli che avevo vicino. Contavo due zazzere, quattro del tipo imbrillantinato, tre crespissime contro due liscissime e spioventi, una nascosta da un velo con perline rosa e una dal berretto con la visiera girata dall'altra parte. Insomma, una babele di teste, tutte diverse e tutte in movimento. 
A un certo punto avverto la sensazione che qualcuno mi stia fissando. Dove sei, chi sei tu che mi guardi e non favelli? E soprattutto, da dove mi raggiungi con questo piccolo laser di occhi insistente, che continua a pungermi da dietro? 
Non lo sapevo ancora che appartenessero alla più grande esperta di leggi e diritto, specializzata con il massimo dei voti. No, non lo sapevo ancora che erano di Giulia.
Insomma, sento di nuovo quel laser di occhi, mi giro e, ad altezza testa, non vedo nessuno. Abbasso lo sguardo e finalmente li intercetto! Sono nerissimi e appartengono a lei. Sì proprio a quell'espertona di diritto internazionale di cui vi accennavo che, sotto due ciuffetti infiocchettati e poco più su della bocca minuscola a forma di cuore, continuava a fissarmi con quelle due biglie nere dal basso del suo passeggino. Serissima. 
La mamma, una signora filippina dall'accento romano, aggiustandole un fiocchetto, risponde al mio sorriso: "Lei è Giulia!". 
"Ciao Giulia, come sei bella. Complimenti signora!"
Giulia continua a fissarmi, immobile, se possibile ancora più seria di prima.
Cosa pensi mai, Giulia? No! Non dirmelo, stamattina volevi telefonare anche tu a Prima Pagina e rispondere al giornalista! E raccontare a gran voce la tua esperienza in materia di ius soli, esperienza che dura da sempre per te - quanti saranno, sei mesi? - e che tua madre si sente italiana, infatti ha la cittadinanza, e che ha fatto mille pratiche, ma che tu sei italiana e basta. Che lo capisci, l'italiano, e che un  giorno lo parlerai da dio e che, sempre un giorno, saprai telefonare a tutti. Ora osservi solamente, ma un giorno, farai un sacco di cose e cucinerai una pasta per primo piatto, col sugo e il basilico, e quel buonissimo secondo di verdura e carne che ti diceva tua nonna. E che le tradizioni uno ce l'ha in testa, come morbidi fiocchetti, e che non sono cappi e che le radici sono dove siamo, caro signor giornalista, volevi dirglielo ma vabbè, e che sono aeree, come quelle di una pianta bellissima che vive nelle Filippine e che ora non sai ancora bene come si chiama ma un giorno sì che lo saprai e che, sempre un giorno, li visiterai tutti quei posti di nonna per poi ritornare a casa, dove ci sarà chi ti aspetta, perché di sicuro, Giulia, uno che ti aspetta, e perde la testa per te, lo trovi. Sicuro.

(Le mie radici preferite)

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Senza di te,
in verità, i boschi
son troppo ampi!
(Issa 1762-1826)




"Anvedi, me stavo p'ammazzà" dice, sedendosi a piombo sul sedile, quello più alto dei due, dopo essere quasi caracollato sull'altro per una frenata improvvisa dell'autobus.
"Mèttete qua, va" gli dice l'amico, sogghignando.
Sono seduti davanti a me, identici, stesso ciuffo scolpito, stessi tatuaggi, stesso telefonino da compulsare, stessa aria di chi conosce la vita dall'alto dei sedici anni.
Non proprio dei secchioni, direi. Più frequentatori di baretti all'angolo o di curve dello stadio per urlarci dentro la domenica. 
Lei. Appare dopo una fermata. È appena salita, li raggiunge venendo verso di noi.
Sì, c'ero anch'io, ma loro tre non lo sapevano.
È scura di pelle, stessa età. Occhi seri sulla bocca sorridente, un piercing sul naso. Iniziano a chiacchierare un po' a mugugni, un po' a risate, un po' mostrandosi lo screen del telefonino.
"E che mica lo so daa prossima settimana" sento che dice lei sotto i cento fermaglietti che ha in testa "È mi' padre che me deve ffa capì come se fa, ma non se capisce gnente. Figurate, capace che se me scade me ne devo annà e tornà laggiù. Perchè io so' itagliana ma me scade..."
"Ma che, davero te ne devi annà?" Dice uno dei due ragazzi con la voce che gli esce da sola dalla bocca che intravedo mezza aperta, sospesa. 
Anche l'altro, che ora lo guarda sgomento e poi guarda lei, scuote quell'opossum di capelli con aria persa. Le facce che vorrebbero essere da cattivissimi, i tatuaggi con i gladiatori uguali a quelli Totti, non fanno paura a nessuno. Loro non vogliono fare paura a nessuno, figurati a lei.
"E che sse fa?"
"Boh, qualcosa se inventàmo, io nun ce capisco gnente. Ecco semo arrivati, scennemo va."
"E sì, qualcosa se inventamo"
I boschi sono troppo ampi, senza di te!
Li vedo, i tre. Veloci verso il corso con i negozi, magari la prossima volta quelle scarpe fichissime me le compro, vedo la lattina condivisa, gli scherzi a lei, le prove di abbraccio di uno dei due.

Un po' sono felice.
Qualcosa, loro tre, si inventeranno.

(Bosco romano)


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NOTA
Ricordate Favour, la neonata arrivata a Lampedusa l'anno scorso? (video QUI) 
Qui l'haiku e il mio post a lei dedicato.

Luccica nel calore
un cesto di vimini
sotto l'albero di susine
(Akutagawa 1892-1927)




Aspettate! Aspettate, gruppo dei sette economisti più importanti della Terra, per gli amici "G7", aspettate!!! (notizia QUI) Inventatevi qualcosa, fate qualche intervista, un paio di foto ancora - Obama, Merkel, Renzi: cheese! -  una telefonata lunga, prendetevi ancora qualche minuto! Una tartina, qualcosa da bere? Sta arrivando!
Eccola qui, finalmente Favour ce l'ha fatta! Dal suo cesto di vimini, saluta tutti, sorride.
I suoi occhi a stellina cercano quelli degli altri suoi colleghi di G7, luccicano e cercano, luccicano e cercano.
"Piccola Favour, grazie di essere arrivata fin qui! Grazie, dacci una mano tu a risolvere questa questione, la tua esperienza è importante per noi, ci serve tutta! Lui è Obama, vedi? Io sono Renzi, questo è Junker e questa signora che ti tiene in braccio si chiama Angela" "No, brava, lascia stare il naso di Cameron. Piacere Favour, piccolo meraviglioso Favore per tutti, benarrivata! Loro si chiamano Trusk e Trudeau, grazie di essere arrivata qui al G7 dopo tanta fatica! Grazie a nome del mondo!".
Shinzo Abe, padrone di casa, fa uno strappo alla regola (forse l'unico della sua carriera di diplomatico giapponese!), nessun tavolo di lavoro, via tutto, via queste scartoffie che non tutti gli ospiti riescono a capire perchè non sanno ancora leggere, via le sedie, troppo alte. 
Si rimarrà lì, sul prato, ad altezza cesto di vimini. Chi vuole può sedersi sotto l'albero di susine, chi vuole può prenderla in braccio, cambiare il pannolino a Favour. Oppure rimanere in silenzio con lei, all'ombra. 
È sbarcata da poco ma non è stanca, è pura vita luccicante, non ne vuole sapere di dormire.
Sta raccontando la sua storia a tutti, il G7 è diventato G8, la vita irrompe e noi ci inchiniamo a questo regalo.

(Il regalo più bello)

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Al profumo dei pruni
d'improvviso, appare il sole
sul sentiero montano
(Bashō 1644-1694)



La storia di Anina Ciuciu, rom rumena che con la sua famiglia fugge dalla Romania per arrivare nel più grande campo nomadi d'Europa, il Casilino 900, non finisce in quella periferia romana.
Dopo anni passati a mendicare per le strade del centro - quante Anine che vedo in giro, quanti sguardi da regine che sfidano il mio, quanti palmi protesi verso di me, molli, ciondolanti come i lattanti appesi che succhiano - fugge verso la Francia. Lì viene aiutata da qualcuno - chi sarà questa persona generosa, cosa ha intravisto negli occhi di Anina che l'ha spinta a interessarsi a lei e alla sua famiglia? Quale sarà stata la prima frase che le avrà rivolto? Una parola gentile o un piccolo gesto? - impara il francese e va a scuola. Poi una borsa di studio, una laurea e ora un master alla Sorbona. 
Anina abita questa nostra Europa sbilenca e chiusa. La attraversa costruendo se stessa, riscattandosi, strappandosi dal mio sguardo perso e colpevole. Nell'intervista appare fiera, consapevole (leggila QUI), ricorda il profumo delle arance in Romania e la puzza di legni arsi con le lamiere del campo. 
Al profumo dei pruni, d'improvviso, appare il sole. E, a quel sole, ci scaldiamo un po' anche noi.



("Grazieee e tanta bona fortuna")

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Vette di nuvole.
Appaiono in sogno
senza confini
(Kato Shuson 1905-1993)



Una serata come tante, una tavolata di vecchi amici, un locale del centro di Roma. E come sempre il passaggio dei venditori di tutto (accendini, pupazzetti, reggi telefonino, cover colorate, rose acciaccate). 
A capotavola, una mia amica che vive in Sicilia da tanti anni, a Roma per qualche giorno, sulla tovaglia antipasti a volontà, fritti e controfritti, nell'aria le nostre chiacchiere.
"Oddio, eccone un altro!" Solita frase, solita mercanzia, soliti sorrisi di compatimento che vogliono significare "ti prego, non sono razzista, ti accolgo, ma ti prego, l'ennesima cianfrusaglia no". Penso alle rose buttate nella spazzatura la mattina stessa, così cimiteriali nel loro appassire istantaneo, acquistate la sera precedente all'uscita di un film, mentre dall'altra parte: "Fratello, ciao! Compra? Ciao miss mondo, bello questo, dai!" 
Fa caldo, sono stanca, o forse a causa di un piatto pieno di mozzarelle che girava, non so, qualcosa nel frattempo mi sfugge quando la mia amica racconta che è appena arrivata dalla Sicilia. Il ragazzo africano  si illumina e dice, mentre si aggiusta il cappello e risponde a una telefonata, che in Sicilia tutti buoni, che quando arrivato gente gentile. Viva Sicilia!
E lo dichiara serio, ricoprendo la mia amica di braccialetti colorati "No soldi. Omaggio Sicilia."
"Lasciali stare" dico automaticamente "che ti tocca comprare tutto. Vedrai come tra poco non ritorna e ti chiede i soldi".
La serata finisce e con lei le nostre chiacchiere. La mia amica ha indossato i braccialetti di perline verdi, giallo e rosse come la bandiera del Senegal.
Il ragazzo non è tornato. "Omaggio Sicilia" mi ha fatto male.



(senza confini)

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Tempesta sotto gli alberi.
C'è qualcosa che pesa
nelle onde del mare
(Yamaguchi Seishi 1901-1994)





Ma possibile che non si trovi una soluzione? Che buona parte dell'Europa non stia ai patti, non provveda ad assorbire, integrandola, questa benedetta quota di migranti che spetta ad ogni paese?
E che si continui solo a strumentalizzare? Uomini, donne e bambini muoiono e si parla sempre di confini, muri e oggi di hotspot galleggianti. 
C'è qualcosa che pesa nelle onde del mare.



Sono circa le sette di sera nella Roma elettorale. 
Sui muri sono attaccati manifesti con colossei dall'aria cattiva e fiamme tricolori che non scaldano. "Sei profugo? Avrai lo stipendio!". L'odio in formato elettorale con l'obiettivo di una caput mundi littoria, decisa e sicura del fatto suo, mi ricorda che di notte è un mio diritto girare tranquilla. Identità, radici e soprattutto sicurezza. 
Quello lì, quello sulla destra, quello che vedo sotto il gazebo elettorale sempre a destra, sì, lui, temo mi voglia proteggere.

Noi vorremmo farci solo un bell'aperitivo primaverile, per questo siamo usciti. Due passi e magari una birretta, l'aria è fina, poi c'è il Tevere liscio liscio con sopra le anatre e a quest'ora è sempre tutto così dolce, così possibile. Ma quell'altoparlante, quei rayban neri nonostante il tramonto, quei bicipitoni istoriati ci avvisano che è meglio rimandare a un altro giorno.
Ok, ok.Torniamo a casa, va. Mi è un po' passata la voglia, anche a te? Vediamo un ragazzo africano, la sua mercanzia low cost che dondola sul piccolo espositore sotto il braccio (appiccichini volanti, accendini che si scaricano subito, braccialetti), procedere esattamente nella direzione di quel gazebo e dei suoi affabili locatari assai impegnati politicamente. 

Amico, lo sai dove stai andando? L'hai capito, amico?
Si aggiusta il borsone sulle spalle, è alto e magro, i pantaloni larghi sul corpo scattante, e avanza sicuro verso quei coetanei lì, verso quel gazebo. 
Li attraversa. Letteralmente, li attraversa. Leggero, felpato, silenzioso. 
Vincerai tu, amico. Ci vuole tempo, ma sei il più forte di tutti. Sei potente.

(the end)