giovedì 7 marzo 2019

"Leggittima" difesa


Hanno sparato a mezzanotte, ho udito
il ragazzo cadere sulla neve
e la neve colpirlo senza un nome.

Guardare i morti alla città rimane
e illividire sotto il cielo. All’alba,
con la neve cadente dai frontoni
dai fili neri, sempre più rovina
accasciata di schianto sulla madre
che carponi s’abbevera a quegli occhi
ghiacci del figlio, a quei capelli sciolti
nei fiumi azzurri della primavera
("Hanno sparato a mezzanotte" di Alfonso Gatto)


La mia legittima difesa sarà "leggittima" con due g, nel senso di leggere, di lettura, di libri. Leggittima. La mia difesa dai cattivi continuerà attraverso, ad esempio,  un romanzo tenuto in mano, faccio il vuoto intorno, giuro, temuta come un super eroe o una zombie repellente. In una qualsiasi sala d'aspetto, in banca o in fila alla posta, a me non si avvicina nessuno. E la mia libreria che si intravede dalla finestra, allora? Funziona da anni da antifurto, ottimamente, chi mai scassinerebbe una casa coi libri dentro? Che mai può esserci di  buono da rubare nelle case di noi lettori, poveri freaks sopravvissuti che preferiamo la complessità alla pancia, un libro a un tweet. Che preferiamo morire in nome di tutto questo?


(Armi improprie)



martedì 5 marzo 2019

PPP



L'intelligenza non avrà mai peso, mai
nel giudizio di questa pubblica opinione.
Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai
da uno dei milioni d'anime della nostra nazione,
un giudizio netto, interamente indignato:
irreale è ogni idea, irreale ogni passione,
di questo popolo ormai dissociato
da secoli, la cui soave saggezza
gli serve a vivere, non l'ha mai liberato.
Mostrare la mia faccia, la mia magrezza -
alzare la mia sola puerile voce -
non ha più senso: la viltà avvezza
a vedere morire nel modo più atroce
gli altri, nella più strana indifferenza.
Io muoio, ed anche questo mi nuoce.
(In "Poesia in forma di rosa" di Pier Paolo Pasolini, Garzanti)

E oggi nasceva Pasolini. Le sue poesie civili ricorrono tutti i giorni, senza bisogno di nessi o notizie. Mi paiono ami infilzati, la cui punta ritorta fa suppurare ferite antiche che non sanano mai.

(Mamma Roma)




   

lunedì 4 marzo 2019

4 marzo


Così come una farfalla ti sei alzata per scappare 
Ma ricorda che a quel muro ti avrei potuta inchiodare 
Se non fossi uscito fuori per provare anch'io a volare 
E la notte cominciava a gelare la mia pelle 
Una notte madre che cercava di contare le sue stelle 
Io li sotto ero uno sputo e ho detto "Olé" sono perduto
La notte sta morendo 
Ed è cretino cercare di fermare le lacrime ridendo 
Ma per uno come me l'ho già detto 
Che voleva prenderti per mano e volare sopra un tetto
Lontano si ferma un treno 
Ma che bella mattina, il cielo è sereno 
Buonanotte, anima mia 
Adesso spengo la luce, e così sia
(Da "Cara" di Lucio Dalla) 

Quando ancora compravo i dischi (no, non cascateci, non parto con la solfa del vinile e dello scricchiolìo dei solchi, dei bei tempi andati o della crisi del disco o spotify, no, intendo quando ancora seguivo la musica "direttamente", quando le canzoni erano come "mie" e la musica mi arrivava così, per generazione, dritta e direttamente nelle orecchie, poi arrivava nel cuore, infine nel cervello formandomi il gusto, e forse il carattere, e gli anni in cui mi sarebbe sfuggita, e con lei i suoi nuovi cantanti, - perché proprio non li sento i nuovi, non me ne accorgo di loro -, questi anni qua erano ancora di là da venire e non li consideravo, beata la me di allora!) mi sono divertita coi testi di Dalla a scovarci dentro in quasi tutti, un riferimento al cielo. 
Stelle, nuvole, luna, aria, vento, sole erano immagini tra una parola e l'altra che nella mia testa coloravano di blu ogni sua canzone, donandole uno struggimento infinito come quello che si prova prima di addormentarsi 


(Settima luna)








venerdì 1 marzo 2019

Bullismo & c.


All'ombra dei fiori,
sono insonne;
il futuro mi spaventa
(Issa 1763-1827)


Dedico questo tenero haiku di Issa a tutti i ragazzini che non riescono a dormire perché hanno paura, vittime di una violenza silenziosa e crudele come quella fra coetanei o di una discriminazione qualsiasi come quella nei confronti dei bassi, grassi, neri, gialli e marroncini, disabili, omosessuali, rom, migranti e non so quale altra demente classificazione.
E dedico questa storia di tanti anni fa che ho chiuso, per quanto mi bruciava, anche dentro il mio libro "Haiku e sakè".

***

Era un pomeriggio di luglio. Ero al mare, a Ostia, per una di quelle domeniche di quasi vacanza su e giù da Roma in cerca di un po' sole. Il costume sotto la gonna jeans, la borsa carica di asciugamani e giornalini, la postazione nella cinquecento di mamma quella solita: davanti. Così contavo gli alberi della Via del Mare, intravedevo le rovine di Ostia Antica per prima e spiavo meglio quelli che ci superavano.
Ma quel giorno d'estate fu diverso dagli altri e si inserì, nel mio calendario personale, di fatto, tra quelli "indimenticabili". Ma ancora non lo sapevo.
Avevo circa tredici anni anni, ricordo bene il mio costume, era quello optical bianco, rosso e blu. I triangoli del pezzo di sopra si riempivano poco da farmelo sempre spostare e aggiustare, sul corpo ancora senza forme. Ero a metà. Tra quel mondo lì, che ancora vedevo vicino (infanzia, bambole, giochi per terra) e questo qui, quello dove mi trovavo già. Nessun punto vita da evidenziare con una bella cintura, nessuna mossa maliziosa, la seduzione un pianeta sconosciuto che non mi interessava. Piuttosto facevo eccentriche prove generali di bellezza, un po' fai da te, a dire il vero, come attaccare un piccolo ciclista autoadesivo dorato alla lente dei miei ray-ban gialli (ancora ricordo la sensazione di fierezza allo specchio, mai sentita meglio), dormire con il naso schiacciato sul cuscino per cercare di ottenere la bocca che scoprisse un po' gli incisivi, tale e quale a quella, per me bellissima, della mia migliore amica, oppure la fissa della visiera, un triangolo di plastica rigida verde, che mettevo a mo' di cerchietto per evitare che i capelli mi andassero sugli occhi - e quindi sugli occhiali fichissimi - e che finiva per stare ritta, con la punta verso il cielo. Non me ne curavo che stesse all'insù perché, l'avrei capito anni dopo, stavo ancora con un piede lì, ero ancora regina di un interregno pre-tutto.
E così come ero, costume storto, occhiali col ciclista e visiera dritta, mi sentivo una vera miss universo 1980.
Mi apprestavo a passare il mio pomeriggio, con mia madre che stava con le sue amiche sotto l'ombrellone e che si spupazzava la mia sorellina intenta nei castelli di sabbia. Non avevo amici-del-mare ma stavo bene anche sola. La sacca la riempivo di quaderni e pennarelli, dei libri delle vacanze e di bacche che raccoglievo dai cespugli bordo piscina per farne un giorno dei profumi buonissimi. E aspettavo l'ora per il bagno dopo mangiato. Posso dirlo? Mi sa che ero felice.
Vidi un'altalena all'ombra, ci salii e iniziai a dondolare, in quel pomeriggio che non dimenticherò più. Ero sola. Forse cantavo qualche cosa. Figli delle stelle? Possibile. Mi rinfrescavo al vento, sentire l'attrito della visiera era bellissimo. Un po' windsurf. Sul sedile ancora ci entravo. Fra un po' mi farò il bagno, pensavo. 
Alcuni ragazzini si appostarono silenziosi alle mie spalle. Quanti erano? E perché non ridevano tra loro, perché non parlavano? Capii in quell'istante che quella sarebbe stata una giornata che non avrei più dimenticato. Alcuni li conoscevo, li vedevo giocare partite di pallone sulla spiaggia, sgambettavano lucidi, magri, spavaldi, dicevano parolacce, mi sembravano piccoli dei inavvicinabili. Uno di loro era il figlio del gelataio di Ostia, questo lo sapevo, era identico a suo padre. Un bel ragazzino sempre con la sabbia appiccicata alle spalle nere di abbronzatura.
Continuavo a dondolare sulla mia altalena mentre il gruppetto, a un segnale che non vidi ma che immaginai, decise di prendere di mira miss universo 1980. Letteralmente di mira. 
Staccavano le bacche dai cespugli e me le lanciavano sulla schiena. Le staccavano via via, una dopo l'altra, e mi gridavano "ah mostrooo!", "mostro, mostro!", "mostrooo!".
Continuavo a dondolare, mani serrate sulle due catene che reggevano il suo sedile, canticchiando sempre più piano, sempre più piano, sempre più dentro. Non scappavo. 
Non a caso ero miss universo 1980.
Rimasi lì, sempre dondolando, mentre bacche e parole si infrangevano una dopo l'altra sulle mie spalle, sulle gambe, sulle dita, mi si impigliavano tra i capelli. Facevano male.
E poi? Non ne volli sapere di girarmi verso di loro o di scendere dall'altalena. Un misto di coraggio e disperazione. Continuai con il mio su e giù e i ragazzetti si stancarono. Tutto qui. Tutto tacque.
Silenzio e di nuovo le cicale. 
Quanto durò? Non me lo ricordo più. Il mio interregno, di cui ero la regina assoluta, finì quel giorno. 
Presi da terra la mia sacca, me la misi a tracolla facendo sempre molta attenzione alla visiera, mi incamminai verso l'ombrellone di mia madre.
"Susanna, cosa c'è?"
"Niente, mami, tutto ok."
"Che dici, torniamo a casa? Si è fatto tardi..."
"Ok."
Molti anni dopo, ma molti anni, in un pomeriggio di luglio indimenticabile, di quelli che il calendario personale incornicerebbe di rosso, sono tornata a Ostia. 
"Ti va un gelato?"
"Entriamo, so che questa gelateria è la migliore di Ostia"
E dietro al bancone ho visto il ragazzetto di allora, imbolsito e oggi sussiegoso, che mi chiede: 
"Signora, che gusto?"
"Bacche!" 
Ma invece ho detto "Crema e cioccolato, grazie!".
Ho preso il mio cono e sono uscita dal bar.

(Costruzione di sé)



giovedì 28 febbraio 2019

Bei pensieri


Nascono i bei pensieri sopra i ponti
e sempre ci si ferma sopra i ponti
per contenere quell’atomo di grazia
sospeso in equilibrio
tra gravità di sponde e cieca corsa d’acqua.
Ti darò appuntamento sopra un ponte,
in questa mezza terra di nessuno.
 ("Ponti" di Patrizia Cavalli)


La Roma dell'architettura fascista, quella che attraverso ogni giorno. Quei grugni, identici l'uno all'altro sotto l'elmo, e sbalzati nei rilievi di marmo che ornano l’entrata al ponte. Davanti a me l'obelisco con la scritta DVX dove qualcuno si fa la foto ricordo: da star male ogni volta. 
Dopo la doppietta di colazione e GR, come ogni mattina attraverso il ponte per raggiungere la redazione.  "Crescita zero e stop alle riforme, la Commissione UE richiama l'Italia", diceva la radio.
Vedo il fiume sotto di me scorrere lento, in questa mezza terra di nessuno. Un gabbiano ha puntato il solito cassonetto ancora da svuotare, un albero caduto ancora in mezzo alla strada, un autobus cigola dietro di me come il vecchio carrozzone che siamo diventati.


(manovra economica)