martedì 23 ottobre 2018

Senza di te


Senza di te,
in verità, i boschi
son troppo ampi!
(Issa 1762-1826)


"Anvedi, me stavo p'ammazzà" dice, sedendosi a piombo sul sedile, quello più alto dei due, dopo essere quasi caracollato sull'altro per una frenata improvvisa dell'autobus.
"Mèttete qua, va" sogghigna l'amico.
Sono seduti davanti a me, identici, stesso ciuffo scolpito, stessi tatuaggi, stesso telefonino da compulsare, stessa aria di chi conosce la vita dall'alto dei sedici anni. Non proprio dei secchioni, direi. Più frequentatori di baretti all'angolo o di curve dello stadio per urlarci dentro la domenica. 
Lei. Appare dopo una fermata. È appena salita, li raggiunge venendo verso di noi. Sì, c'ero anch'io, ma loro tre non lo sapevano. È scura di pelle, stessa età. Occhi seri sulla bocca sorridente, un piercing sul naso. Iniziano a chiacchierare un po' a mugugni, un po' a risate, un po' mostrandosi lo screen del telefonino.
"E che mica lo so daa prossima settimana" sento che dice lei sotto i cento fermaglietti che ha in testa "È mi' padre che me deve ffa capì come se fa, ma non se capisce gnente. Figurate, capace che se me scade me ne devo annà e tornà laggiù. Perchè io so' itagliana ma me scade..."
"Ma che, davero te ne devi annà?" Dice uno dei due ragazzi con la voce che gli esce da sola dalla bocca che intravedo mezza aperta, sospesa. 
Anche l'altro, che ora lo guarda sgomento e poi guarda lei, scuote quell'opossum di capelli con aria persa. Le facce che vorrebbero essere da cattivissimi, i tatuaggi con i gladiatori uguali a quelli Totti, non fanno paura a nessuno. Loro non vogliono fare paura a nessuno, figurati a lei.
"E che sse fa?"
"Boh, qualcosa se inventàmo, io nun ce capisco gnente. Ecco semo arrivati, scennemo va."
"E sì, qualcosa se inventamo"
I boschi sono troppo ampi, senza di te!

Li vedo, i tre. Veloci verso il corso con i negozi, magari la prossima volta quelle scarpe fichissime me le compro, vedo la lattina condivisa, gli scherzi a lei, le prove di abbraccio di uno dei due.
Un po' sono felice.
Qualcosa, loro tre, si inventeranno.


(Bosco romano)



sabato 20 ottobre 2018

Innìo, in nessun luogo e ovunque


Pensarti almeno, Pier,
in un innìo lucente, i piedi sporchi d'erba
al riparo del silenzio,

preso come il giardino, dal verso strano
di un uccello nascosto che non conosci
eppure è come già sentito
per le strade tue di dentro.

Presa anch'io da quel verso, mi riscuote
il tuo allegro "Prendi".
Vola sull'acqua, la scaglia, vola sull'acqua,
che non scorre, vola,
salta sulla mia riva,
e nella tua mano. E' lucente.
(Inedito di Ida Vallerugo)

Mi commuove il Pier, la dedica chiusa dentro due virgole, e dentro una poesia. E' come se venisse cristallizzata lì una voce, come se ci fosse la vita, un soffio almeno, dentro i versi dedicati, un sentire umano che diventa tangibile, visibile, intrappolato com'è nell'ambra della costruzione poetica.
Il libro uscito postumo di Pierluigi Cappello, a poco più di un anno dalla sua morte, che raccoglie il corpus poetico di Pier, in un innìo lucente che consiglio. Innìo, in nessun luogo, dice Vallerugo citando un verso di Cappello, nella loro comune parlata friulana che diventa intimità. (In ricordo di Cappello ho scritto questo, cliccando QUI puoi leggerlo.)

L'inedito di Ida Vallerugo apparso sull'ultimo numero del mensile Poesia appena copiato qui, vorrebbe essere un esempio di quella catena poetica che provo a comporre ogni giorno e che oggi sta coi piedi nell'erba di quelle campagne che ho imparato a conoscere come dure, aspre, nei versi di Villalta, e che è come se si elettrificassero in Zanzotto
Amo leggere poesie. Da una vado all'altra, posso arrivare a Bertolucci passando da Santōka, a Sereni da Orelli e Pusterla. Arrivo a Rene Char che mi riporta a Sereni, e Magrelli, Osip Mandel'štam nei versi di Anedda, Raboni e Valduga, Valduga e Raboni. E Zeichen con i suoi epigrammi, ne aveva per tutti, che parlano di invidie e poi di abbracci. Arrivo a Patrizia Cavalli. E alla Gualtieri, che è come si mi parlasse in un orecchio, e che in un'intervista cita la Vallerugo che prima non conoscevo. Ecco l'anello della mia catena poetica che aggancio oggi, qualcos'altro domani ci aggancerò.
Amo leggere poesie. 



giovedì 18 ottobre 2018

Gli appost


Addosso al viso mi cadono le notti
e anche i giorni mi cadono sul viso.
Io li vedo come si accavallano
formando geografie disordinate:
il loro peso non è sempre uguale,
a volte cadono dall’alto e fanno buche,
altre volte si appoggiano soltanto
lasciando un ricordo un po’ in penombra.
Geometra perito io li misuro
li conto e li divido
in anni e stagioni, in mesi e settimane.
Ma veramente aspetto
in segretezza di distrarmi
nella confusione perdere i calcoli,
uscire di prigione
ricevere la grazia di una nuova faccia.
 (Da “Il cielo”, in Patrizia Cavalli)

Una poesia come un selfie, con Cavalli succede anche questo.
Mi capita spesso di leggere sul social più famoso del mondo gli "appost". E' finito il tempo dei post, i brevi editoriali dal tono sentenzioso, a volte spiritoso, ormai sono superati. Gli appost sono veri e propri resoconti di vita vissuta apposta, appost, per poterne scrivere su Facebook. Litigi sull'autobus fatti appost in previsione di qualche like di complice sdegno, piccoli sondaggi per dubbi nati appost, piatti cucinati per l'appost con la foto da pubblicare all'ora di cena. E gli immancabili gattini, stuzzicati appost solo per poterne raccontare.

Ma veramente aspetto
in segretezza di distrarmi
nella confusione perdere i calcoli,
uscire di prigione

Siamo diventati questo, è successo, non l'abbiamo fatto appost. 

(in vetrina)



martedì 16 ottobre 2018

Riti quotidiani


E' ridicolo credere
che gli uomini di domani
possano essere uomini,
ridicolo pensare
che la scimmia sperasse
di camminare un giorno
su due zampe

è ridicolo
ipotecare il tempo
e lo è altrettanto
immaginare un tempo
suddiviso in più tempi

e più che mai
supporre che qualcosa
esista
fuori dell'esistibile
il solo che si guarda
dall'esistere
("È ridicolo credere" di Eugenio Montale)


Quando sulla lavastoviglie premo invio è come se quel pulsante fosse collegato al cosmo. Ascolto l'acqua nel risucchio della pompa, trattengo il respiro, il fluire liberatorio tra le pentole sporche, espiro, e il clic dello sportellino del detersivo e le eliche che girano. 
Tutto fa ciò che deve ed è come se ogni piatto o bicchiere mi tranquillizzasse e potesse anche dirmi sai, va tutto bene, tutto ha un senso, tranquilla, non vedi? Le cose sporche torneranno pulite, tu non ci pensare.

(ti credo) 



   

lunedì 15 ottobre 2018

Il riposo della domenica


La primavera da lontano
sogna d'essere qui.
È quando un canto
qualunque d'uccello
abbatte massicci portali di gelo,
è quando assicura: non è stanca di noi
non smette la terra
di farsi brucare.
Butta su le forme i sapori
per farsi mangiare. Da scuri granelli
diventa animale - e anche pensiero -
sostanza di noi.
(da "Le giovani parole" di Mariangela Gualtieri)

Mi riposo leggendo di animali. Una volta le formiche, un libro con la copertina azzurra ne narrava ogni tic, per me era una bibbia alternativa, micro energumene che via via nella lettura mi apparivano sempre più consapevoli, votate al misterioso, ineluttabile, loro mandato con una certa idea dell'esistenza. E le spiavo, mentre si infilavano nei buchi, incuranti della mia devozione, sempre qualcosa di urgente da risolvere, addosso una briciola, un frammento tremante, o quando nella mia cucina, zona lavello, si radunavano in gruppetti di sei sette. Mi sembravano bellissime, dee da venerare (qualcuno più bravo di me le aveva suddivise in diecimila specie), quanto il mio occhio può apparirgli gigantesco o il mio polpastrello quando ne punta una e diventa una collinetta che interrompe la loro strada invisibile e la solleva in aria e lei sempre lì, sopra, miracolosamente incollata al mio dito. Poi fu il turno delle farfalle, imparai che certe usano le navi per raggiungere luoghi lontani e caldi, alle loro ali polverose, inadatte per sorvolare il mare, hanno supplito così, con un passaggio, attaccate a una trave, riparate negli interstizi della ferraglia. E i ditteri svedesi, piccoli gioielli volanti, puf, sono caduta nel loro retino. Poi i lupi, e la mia testa tra le api, che angoscia una possibile loro estinzione, mi colavo sulla lingua un cucchiaino di miele come oro dolcissimo e tifavo per lui, alla faccia di cappuccetto. La mia domenica l'ho dedicata agli uccelli, il corvo è un mezzo genio, e chi ci pensava, il canto che imparano ascoltando i propri simili, e che varia, cambia a seconda del gruppo e della zona, una specie di dialetto musicale, ma dimmi tu.