giovedì 30 gennaio 2020

Il Valzer della Brexit


Domani tu mi lascerai
e più non tornerai,
domani tutti i sogni miei
li porterai con te.

La fiamma del tuo amor
che sol per me sognai invan
è luce di candela che
già si spegne piano pian.



E così, diceva la radio, l’Europarlamento ha approvato l’accordo di recesso del Regno Unito dall’Unione europea. I voti favorevoli 641, quelli contrari 49, le astensioni 13. 
Come in un vecchio film, i titoli di coda scorrono sull'ultimo fermo immagine degli eurodeputati che cantano la canzone tradizionale scozzese Auld Lang Synè, nota come il Valzer delle candele. Il testo è del poeta Robert Burns, e il titolo un'espressione scozzese, accolta nel dizionario inglese, che significa "i bei tempi andati".
La canticchio, dondolo su me stessa con aria pensosa. Ma l'unica cosa che mi viene in mente è la versione di Elvis Presley gonfio di alcol e malinconia (QUI) 

(Paddington Station)


  



mercoledì 29 gennaio 2020

Virus virale


Vuota è la montagna – non vedo nessuno
solo odo fantasmi di voci.
Ancora la luce del sole, penetrando nel fitto degli alberi,
si riflette, scintilla sul muschio.
(Poesia Tang)

Dalle case di Whuan esce il grido di chi soffre e ha paura, arriva sui video degli appartamenti di ogni angolo del globo e rimbalza sui telefonini.
Forza Wuhan! urlato in coro è l'inno alla speranza diventato di tutti. 


(ancora la luce del sole)

lunedì 27 gennaio 2020

Giornata della Memoria


(...)
Ecco la gran massa d'ombra
da cui fuoriuscirono ponderose ore
e svastiche rotanti, pesanti stivali
calpestatori e botte e uscirono corpi
ridotti senza più carne per meglio combustare
o ammassati tenebrare in fosse in sepolture
respiratorie. Ecco. Uscì da quella massa nera
una durezza spacciata
per superiore forza e pulizia mondiale.
(...)
(Mariangela Gualtieri da "Quando non morivo")


Viale Giulio Cesare a Roma. La sorpresa di qualche giorno fa, prima di andare al cinema. 

(Esseri umani)

mercoledì 22 gennaio 2020

Sono nessuno



Se, alla luce delle cose tu scolori
vera, eppure debolmente sottratta
alla nostra determinata e giusta
distanza, come la luna lasciata accesa
tutta la notte tra le foglie, possa
tu invisibilmente allietare questa casa;
o stella, doppiamente compassionevole, venuta
troppo presto per il crepuscolo, troppo tardi
per l’alba, possa la tua pallida fiamma
dirigere il peggio in noi
attraverso il caos
con la passione del
semplice giorno.
(Dereck Walcott da Mappa del Nuovo Mondo)


"Ho dell'inglese, del negro e dell'olandese in me / sono nessuno o sono una nazione". E’ in questa molteplicità di origini che si alimenta la poetica e l’originalità della lingua di Dereck Walcott, nato oggi novanta anni fa.

Quando era bambino la madre Alix declamava Shakespeare. Di suo padre, morto quando lui aveva appena un anno, sopravvisse la biblioteca ed è lì che scopre il Walt Whitman di Foglie d’erba. Ama lo stile di Milton, di Auden. E poi, più tardi, quelli di Dante, Joyce, Eliot. Nei cinque Gettoni che gli ho dedicato non mi sono mossa dalla sua isola-mondo, Santa Lucia, tralasciando volutamente altri luoghi molto importanti, e molto lontani dai Caraibi, a cui fa riferimento nel suo lavoro. Luoghi di viaggi come la Spagna, l’Inghilterra, gli Stati Uniti, l’Olanda, e l’Italia dei testi dedicati a Siracusa,a Urbino, a Venezia e a Recanati. Ho preferito seguire l’Omeros del suo poema, cercare di capire l’equilibrio tra familiarità ed estraneità, provando a declinare in modo universale il concetto di identità culturale.
Scegliere l’inglese per Walcott non era sudditanza, conoscere culture diverse non significava sbiadire la propria. “Sono nessuno” diceva. 
Un nessuno frutto di un impasto antico quanto la storia del mondo, fatto di identità multiple, capaci di bassezze come di gesti eroici. 

(resistenze poetiche)


martedì 21 gennaio 2020

Franco Loi


Dent la paròla vèrta mí me pèrdi,
deventi i ròbb del mund, l’aria che passa,
quèla parola che sta dedré de l’aria
e se fa ciara aj ögg che stan nel temp,
e se mí parli sù no chi l’è ‘l parlà,
l’è ‘l vent che parla cul mè d’un sentiment,
ché nient se fa del nient e nel pensà
la vûs che mí me ciama me vègn dent.

Dentro la parola aperta io mi perdo,
divento le cose del mondo, l’aria che passa,
quella parola che sta dietro l’aria
e si fa chiara agli occhi che stanno nel tempo,
e se io parlo non so chi è il parlare,
è il vento che si dice col mio sentimento,
poiché niente si fa dal niente e nel pensare
la voce che mi chiama mi viene dentro.
(Franco Loi da "Isman" Einaudi 2002)


Una casa luminosa e borghese nella Milano di periferia, sobria e piena di libri. Franco Loi mi aspettava per registrare alcune sue poesie. La luce attraversava le persiane, la luz, diceva il poeta, in quel suo impasto di lingua e dialetto e slang dell'hinterland milanese. Nato a Genova novanta anni fa come oggi, da ottanta vive a Milano, città che ha abbracciato attraverso le parole dei suoi versi, attraverso quel linguaggio ibrido di suo conio e con quel sorriso da monaco allegro. Ieratico ma non troppo, dialettale ma non esattamente, malinconico ma con quel raggio di felicità francescana che attraversa le sue parole aperte.

(sulle parole della poesia)