venerdì 17 febbraio 2017

Kounellis (1936-2017)


(...)
E' come tutti,
contiene la città enorme in cui cammina,
si attiene, nell'andare, alla sua morte -
il sonoro è il vento,

un accompagnamento primordiale
basta aderire senza toccare nulla
a lei che s'accontenta di portarle.
La sua realtà è la mia arte.
(da "La fine di quest'arte" di Silvia Bre)



L'incanto sospeso di questo ultimo verso per ricordare, nel mio diario poetico, la scomparsa dell'artista Jannis Kounellis (QUI e una bellissima intervista video QUI).
La sua realtà è la mia arte.
Continuare a leggere la complessità di quel gesto artistico (portare cavalli, vivi, nel 1969, dentro una galleria romana, ora storica, L'Attico), o capire sempre meglio la ruggine dei suoi ferri appesi, o ancora comprendere, un altro poco, un pochino di più, ogni sua pietra, incastrata, accatastata, impilata, osservarne con acribia ogni concrezione e residuo organico, il nostro compito.
La sua realtà è la mia arte. E io lo ringrazio.     


(opere d'arte)







giovedì 16 febbraio 2017

La non-mamma


La bambina è rimasta con me.
Non è mai nata.
Si sbilancia fra i miei precipizi
ride forte e lenta dorme
e forte resta
resta sempre. Col suo cuore
che fa cuore col mio.
La bambina di sole azzurrina.
(Mariangela Gualtieri "Un niente più grande")



In un tempo abbastanza lontano qualcuno mi badava, preparava alle cinque la merenda e la frittatina per la cena. Mi rimboccava le coperte e spegneva la luce.

Oggi che mi faccio tutte queste cose da sola, e non ho figli, e giro il mondo, guardo i capelli fatti di nulla dei bambini, le loro guance di gommapiuma, i passetti coraggiosissimi di gambette tonde di pannolini. Immagino pappe e macchie, tenerezze e pasta fissan. Gli odorini di buono, di camerette colorate dove volano farfalline appese al soffitto, giocare a "maestra" o a "cucinare" o a "negozietto". 
E penso a quel tempo.
Oggi che sudo, imparo, preparo una cena e spendo soldi veri, oggi che la mia camera è diventata stanza,  ho imparato a consolarmi del mio essere figlia mia o, se preferite, bambina azzurrina.

                                                                         (Cose piccole)

mercoledì 15 febbraio 2017

Il bosco in testa


Sono venuto qui a guardare gli alberi
anche se è buio. Vedo come si incurva
la terra e posso raggiungerla
dove l'erba falciata sbianca.
Sono i miei pensieri più antichi
i rami nel buio, la terra guardata.
(Gian Mario Villalta "Nel buio degli alberi")


I recessi più oscuri dell'animo umano che Villalta sembra mostrarci come i poeti sanno fare, ovvero anticipandoci, come una torcia accesa che illumina, davanti a noi, il passo che stiamo per fare. I rami, ancora più neri del cielo nero che li comprende, e gli sprazzi di luce fredda, lunare. Il nostro incedere prudente. 
Pensieri antichi per angosce eterne.
La notizia del suicidio del sedicenne di Lavagna (la notizia QUI) ci spinge ancora una volta dentro quel bosco fitto. Non trovo la strada, la luce è così poca... 
Avremmo voluto aiutarlo, capirlo, il nostro ragazzo. Rassicurarlo con la più dolce delle carezze, passargli una mano sulla testa. Proteggere quel bosco, insieme a lui cercare la luce che filtra tra un ramo e l'altro.


(Luce e ombra)

martedì 14 febbraio 2017

San Valentino

Senza di te,
in verità, i boschi
son troppo ampi!
(Issa 1762-1826)


"Anvedi, me stavo p'ammazzà" dice, sedendosi a piombo sul sedile, quello più alto dei due, dopo essere quasi caracollato sull'altro per una frenata improvvisa dell'autobus.
"Mèttete qua, va" gli dice l'amico, sogghignando.
Sono seduti davanti a me, identici, stesso ciuffo scolpito, stessi tatuaggi, stesso telefonino da compulsare, stessa aria di chi conosce la vita dall'alto dei sedici anni.
Non proprio dei secchioni, direi. Più frequentatori di baretti all'angolo o di curve dello stadio per urlarci dentro la domenica. 
Lei. Appare dopo una fermata. È appena salita, li raggiunge venendo verso di noi.
Sì, c'ero anch'io, ma loro tre non lo sapevano.
È scura di pelle, stessa età. Occhi seri sulla bocca sorridente, un piercing sul naso. Iniziano a chiacchierare un po' a mugugni, un po' a risate, un po' mostrandosi lo screen del telefonino.
"E che mica lo so daa prossima settimana" sento che dice lei sotto i cento fermaglietti che ha in testa "È mi' padre che me deve ffa capì come se fa, ma non se capisce gnente. Figurate, capace che se me scade me ne devo annà e tornà laggiù. Perchè io so' itagliana ma me scade..."
"Ma che, davero te ne devi annà?" Dice uno dei due ragazzi con la voce che gli esce da sola dalla bocca che intravedo mezza aperta, sospesa. 
Anche l'altro, che ora lo guarda sgomento e poi guarda lei, scuote quell'opossum di capelli con aria persa. Le facce che vorrebbero essere da cattivissimi, i tatuaggi con i gladiatori uguali a quelli Totti, non fanno paura a nessuno. Loro non vogliono fare paura a nessuno, figurati a lei.
"E che sse fa?"
"Boh, qualcosa se inventàmo, io nun ce capisco gnente. Ecco semo arrivati, scennemo va."
"E sì, qualcosa se inventamo"
I boschi sono troppo ampi, senza di te!

Li vedo, i tre. Veloci verso il corso con i negozi, magari la prossima volta quelle scarpe fichissime me le compro, vedo la lattina condivisa, gli scherzi a lei, le prove di abbraccio di uno dei due.
Un po' sono felice.
Qualcosa, loro tre, si inventeranno.

(Bosco romano)

lunedì 13 febbraio 2017

Una lezione di radio

Spunta dalla radio
una canzone di quando
stavo diventando grande
(Santōka 1882-1940)


Ai miei inizi, quando ero una giovane ultima ruota del carro, mi avevano messo all’ascolto di vecchie bobine. Dovevo richiederle presso la nastroteca, portarle in uno studio (pesavano un po’), posizionarle sulla macchina che ne permettesse anche il montaggio facendo molta attenzione a non spaccare il nastro e, soprattutto, a non perderle lasciandole in giro. Il mio lavoro consisteva nell’ascoltare e prendere appunti veloci, nulla di più. Dovevo annotarmi il minuto e il secondo precisi del frammento di archivio che serviva per il programma a cui lavoravo allora. Mi sedevo davanti alla macchina, le bobine impilate per terra ai miei piedi, i resti di un panino nella sacca, con il tempo che passava veloce girando su se stesso come quei nastri.
Una volta, siamo alla fine degli anni Ottanta, non ricordo cosa cercavo di preciso né per quale trasmissione lavorassi, mi capitò una vecchia intervista a Primo Levi.
A un certo punto di quella intervista che continuava nelle mie orecchie, in un preciso momento che non dimenticherò mai, mi metto all’ascolto e “capisco” la radio. Ricostruisco per voi. A una domanda dell’intervistatore, Levi non risponde subito, c’è quello che in gergo si chiama “buco”, ovvero un silenzio un po’ troppo lungo. Poi si sente un cigolìo, lievissimo, come di chi stia cambiando la posizione per mettersi più comodo sulla sedia. Ancora silenzio, sembra interminabile. Poi, ecco: la rotellina sfregata tra le dita dell’accendino, che immagino di plastica, tipo i vecchi Bic. Subito dopo, è questione di secondi, l’aspirazione di quella che ora vedo come una sigaretta tra le labbra dello scrittore. Alla fine, un lungo respiro. Vedo ancora, il fumo che esce dalla sua bocca e che va esaurendosi con questo lungo, interminabile respiro di Levi al microfono, prima di rispondere alla domanda. Fine del buco sonoro. Levi risponde. Ed ecco a voi: la radio.
Sì, è lì. Dentro quel buco sonoro, in quella microazione così significativa che ci inchioda, c’è la radio. Quella minuscola rotellina, quel fumo immaginato dentro uno studio radiofonico, quell’intelligenza e sensibilità di chi ha lasciato tutto così senza tagliare nulla, senza avvicinare due lembi di nastro che avrebbero cancellato quella pausa fondamentale, fanno la radio.
Parlare di silenzio per parlare di radio e di ascolto può sembrare stravagante, eppure è proprio così. Nell’espressione “mettersi in ascolto” sembrano comprese due forze opposte,  uguali e contrarie. Uno yin e uno yan radiofonico, due forze in tensione. Una attiva e in movimento, l’altra in attesa vigile di qualcosa.

Radio3 contribuisce non solo a raccontare il mondo ma anche ad ascoltarlo. Nel suo rumore e nei suoi silenzi, in una strana e virtuosa empatia – che non finisce mai di stupirmi – fra chi fa la radio e chi la ascolta.