Spunta dalla radio
una canzone di quando
stavo diventando grande
(Santōka 1882-1940)
Ai miei inizi, quando ero una giovane ultima ruota del
carro, mi avevano messo all’ascolto di vecchie bobine. Dovevo richiederle
presso la nastroteca, portarle in uno studio (pesavano un po’), posizionarle
sulla macchina che ne permettesse anche il montaggio facendo molta attenzione a
non spaccare il nastro e, soprattutto, a non perderle lasciandole in giro. Il
mio lavoro consisteva nell’ascoltare e prendere appunti veloci, nulla di più.
Dovevo annotarmi il minuto e il secondo precisi del frammento di archivio che
serviva per il programma a cui lavoravo allora. Mi sedevo davanti alla
macchina, le bobine impilate per terra ai miei piedi, i resti di un panino
nella sacca, con il tempo che passava veloce girando su se stesso come quei
nastri.
Una volta, siamo alla fine degli anni Ottanta, non ricordo
cosa cercavo di preciso né per quale trasmissione lavorassi, mi capitò una
vecchia intervista a Primo Levi.
A un certo punto di quella intervista che continuava nelle
mie orecchie, in un preciso momento che non dimenticherò mai, mi metto
all’ascolto e “capisco” la radio. Ricostruisco per voi. A una domanda
dell’intervistatore, Levi non risponde subito, c’è quello che in gergo si
chiama “buco”, ovvero un silenzio un po’ troppo lungo. Poi si sente un cigolìo,
lievissimo, come di chi stia cambiando la posizione per mettersi più comodo
sulla sedia. Ancora silenzio, sembra interminabile. Poi, ecco: la rotellina
sfregata tra le dita dell’accendino, che immagino di plastica, tipo i vecchi
Bic. Subito dopo, è questione di secondi, l’aspirazione di quella che ora vedo
come una sigaretta tra le labbra dello scrittore. Alla fine, un lungo respiro.
Vedo ancora, il fumo che esce dalla sua bocca e che va esaurendosi con questo
lungo, interminabile respiro di Levi al microfono, prima di rispondere alla
domanda. Fine del buco sonoro. Levi risponde. Ed ecco a voi: la radio.
Sì, è lì. Dentro quel buco sonoro, in quella microazione
così significativa che ci inchioda, c’è la radio. Quella minuscola rotellina,
quel fumo immaginato dentro uno studio radiofonico, quell’intelligenza e
sensibilità di chi ha lasciato tutto così senza tagliare nulla, senza
avvicinare due lembi di nastro che avrebbero cancellato quella pausa
fondamentale, fanno la radio.
Parlare di silenzio per parlare di radio e di ascolto può
sembrare stravagante, eppure è proprio così. Nell’espressione “mettersi in ascolto”
sembrano comprese due forze opposte,
uguali e contrarie. Uno yin e uno yan radiofonico, due forze in
tensione. Una attiva e in movimento, l’altra in attesa vigile di qualcosa.
Radio3 contribuisce non solo a raccontare il mondo ma anche ad ascoltarlo. Nel suo rumore e nei suoi silenzi, in una strana e virtuosa empatia – che non finisce mai di stupirmi – fra chi fa la radio e chi la ascolta.
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