giovedì 12 gennaio 2017

Single?

Questo libro è innanzitutto la storia di un uomo, di un uomo che passò la maggior parte della propria vita in Europa occidentale nella seconda metà del Ventesimo Secolo. Per lo più solo, egli intrattenne tuttavia rapporti saltuari con altri uomini. Visse in un'epoca infelice e travagliata. La nazione che gli aveva dato i natali scivolava lentamente ma inesorabilmente verso la fascia economica delle nazioni di media povertà; sovente incalzati dalla miseria, gli uomini della sua generazione pativano comunque un'esistenza solitaria e astiosa. I sentimenti d'amore, di tenerezza e di umana fratellanza erano in gran parte scomparsi; nei loro mutui rapporti, i suoi contemporanei davano assai spesso prova di indifferenza e di crudeltà.
incipit di "Particelle elementari " Michel Houellebecq



I dati ISTAT 2016 offrono il quadro di un'Italia popolata da single, da otto milioni di persone a cui "fare famiglia" proprio non interessa (la notizia QUI). Le varie motivazioni le lascerei perdere, sarebbero troppe per un solo post scritto oltretutto da me che non sono né sociologa, né economista, né psicologa. 
Da lettrice, ovvero da quello che sono, non posso non pensare a Houellebecq e a quel suo modo di incorniciare letterariamente questo nostro comune malessere.
Lo scrittore francese poggia il suo scarpone chiodato sulla fortunata e lapidaria intuizione sociologica di Bauman, la società liquida, e ci restituisce, nei suoi romanzi migliori, e molto più dettagliatamente di qualsiasi analisi statistica o sondaggio, il nudo dato di quello che siamo, cittadini di un'epoca infelice e travagliata

Nota
Leggo il fatto del ragazzo che ha ingaggiato un coetaneo di sedici anni per uccidere i suoi. Ottanta euro e poi il resto. Mille euro, affare fatto. (QUI)
Se cerco ancora tra i libri di Houellebecq troverei una pagina anche per questo...ma non mi va.

(inquadrare solitudini)



mercoledì 11 gennaio 2017

Occhionero

Di lenti a contatto, non è neanche il caso di parlarne. Amici rannicchiati con la testa fra le mani e la retina segata in due; amiche che frugano in terra per poi scoprire che il corpuscolo è dietro, finito sotto il bulbo, dunque dentro di loro. (Ma cosa fa una lente dentro il corpo? Quel viluppo sanguinolento deve essersene impossessato a tradimento, e adesso non lo cede, anzi, ci gioca, e sembra Calibano col monocolo). Ah no! Allora meglio il laser, la punta d'oro che brucia e cuce, brace del cristallino e sguardo risanato, squillante tallero nuovo di zecca. Ma per la chirurgia, c'è ancora tempo...
da "Il condominio di carne" di Valerio Magrelli

Grazie all'opera oculistica dei due fratelli Occhionero (mai nome così giusto, mai nome così giusto!), il condominio italiano stava/sta rischiando grosso (la notizia QUI).
Come minuscole lenti a contatto i due si sono insinuati nei pc dei potenti, leggendo mail su mail e registrando dati importanti che non consistevano certo nell'ora fissata per il calcetto o la mesta newsletter dal cinema d'essay che sta per chiudere.
Staremo a... vedere.

Intanto, io, stamattina presto, giuro, ho fatto un volo per prendere l'ipad, zeppo di dati tutti miei, misteriosissimi, rovinando per terra, facendo un gran casino e svegliando tutti. 
Non ho lo stile della spia.


(Ginocchio nero)


martedì 10 gennaio 2017

Società liquida

Nel torrente montano che scorre a valle il giovane Goethe vedeva una giovinezza fresca e impetuosa, che precipitava verso la pianura rendendo feconda la terra. Nella stagione dello Sturm und Drang, dalle speranze pre-rivoluzionarie, il fiume era simbolo del genio, dell'energia vitale e creativa del progresso.
Da "Danubio" di Claudio Magris


Con Zygmunt Bauman la società ci è apparsa per quello che è davvero, e nessuno l'aveva visto prima, ovvero "liquida". 
La lezione del sociologo polacco appena scomparso (clicca QUI) consiste nell'avere individuato la nostra società come innervata da una rete di relazioni essenzialmente connotate da caratteristiche talmente fluide che vanno a scomporsi e a ricomporsi in modo costante ma estremamente vacillante.
La realtà liquida che viviamo, dalle elezioni di Trump in poi, si è connotata anche di un'altra caratteristica: la post-verità. Sembra difatti avere perso totalmente di senso la distinzione tra vero e falso, è il pubblico a decidere (Il prezzo la fate voi!) e smentire non serve a nulla perché è impossibile farlo visto che i media sono talmente, e diabolicamente, liquidi che non lo permettono (vedi il caso Clinton). 
Ci siamo dentro, fino al collo.

Della tesi del sociologo, mi pare che i cinquestelle, noti per rivendicare il diritto di non volerne sapere di politica, di sociologia, di storia o di geografia perchè per governare non servono a niente, hanno preso alla lettera, troppo alla lettera, il marchio acqueo della liquidità facendone elemento di istrionico virtuosismo ogni giorno, e a sorpresa.
Solo così posso spiegarmi questo cambiare repentino di strada come farebbe un torrente, portarsi appresso di tutto (scarti e rifiuti), volersi disperatamente connotare con l'idea di "movimento" che da una parte vuole stare per forza in un'Europa di cui non condividono le istanze e dall'altra liquidare, sì liquidare, la questione migranti.
Con buona pace di Bauman. E del Danubio di Goethe e poi di Magris.
Pluf.
(voglio scendere!)
















lunedì 9 gennaio 2017

Freddo da morire

Freddo freddo suolo
arrendo a lui
il mio corpo febbricitante
(Santōka 1882-1940)


Gran parte dei monaci zen che ho frequentato nel mio blog e di cui ho raccontato nel libro viveva di elemosine, oggi verrebbero chiamati barboni, invisibili, dimenticati. Su tutti, e lo sapete, amo Santōka. Anche lui girava a piedi il Giappone, su sandali leggeri e con in testa un cappellone di bambù per ripararsi dalla luce e dalla pioggia, e scaldava mente e corpo con litri di sakè. Sapete anche questo.

Con il clima polare che si è abbattuto sull'Italia dal nord fino alla Puglia - che spala neve alta un paio di metri - alcuni senza tetto, i miei "visibili", sono letteralmente morti di freddo. 
Non posso non pensare a Santōka, agli haiku appuntati sul suo diario, al gelo che gli attanagliava piedi e mani, all'umidità che gli marciva le ossa. I miei monaci zen, ogni tanto, trovavano asilo e un po' di cibo, come sicuramente capita ad alcuni di questi uomini che vediamo in giro qui, tra noi. La morte che si consuma in silenzio ai nostri lati, sotto un cartone di una qualsiasi stazione, sopra una panchina, in totale solitudine - nessun sorriso, lacrima o mano da tenere stretta - è qualcosa che spacca il cuore. Se provi solo a ripeterlo ad alta voce, "morire di freddo", ti si spacca.

Incollo queste righe che, un po' riviste e ampliate, sono anche su Haiku e saké. 

...

Fino al 2010, anno in cui morì, nella piazza dove la dolce vita di Via Veneto precipita verso il basso, piazza Barberini, si agitava un "matto". 
Spernacchiava gli automobilisti fermi al semaforo, urlava cose pazze e slogan contro i politici. Mostrava la lingua a chi lo incrociava a piedi e gli partiva pure qualche sputo.Tutti i giorni lo trovavi lì, i romani se lo ricorderanno di sicuro. Bizzarramente elegante, bretelle colorate, cravatta sopra la felpa, uno stereo a manetta. 
Ballando, perché ballava, faceva vibrare le due antenne che si era incollato sul cappelletto. A volte faceva un inchino pazzo.
Un giorno di tantissimi anni fa prese di punta la nostra macchina, urlando frasi in libertà a mio padre che era alla guida. La mia reazione fu la classica della bambina che si vede in un colpo orfana per colpa di un cattivissimo con antenne. Fatti pochi metri, e rassicurata dal fatto che mio padre era ancora vivo e al volante, riuscii a esclamare d'un fiato "Ma è proprio matto,eh?!" 
Risposta: " E' un tipo simpatico!".
Mi si ribaltò il mondo. Uno così (qui), con quelle antenne, poteva non solo non essere malvagio, ma addirittura simpatico. 

Anni dopo, avrei risposto ai "saluti cantati" di un uomo eternamente sorridente, fisso per anni allo stesso semaforo, che chiedeva l'elemosina ai passanti. Dal taschino della giacca sbucava una forchetta con un pezzetto di pane infilzato. "Per quando non avrò più gnente da magnà!" rispondeva, e tornava a cantare.

Negli anni Novanta ritovavo, quando passavo dalle loro parti, le tracce di una coppia, lui e lei. Due vecchi russi che si erano costruiti una "dacia" di cartoni dalle parti di Via Nazionale e che portavano un colbacco di pelliccia anche d'estate. Occhi chiari e gambe gonfie. In giro, sacchi di roba di tutti i tipi. Cicche in bocca, bottiglie svuotate, pentole e fornelletto.

A Corso Francia so che esiste un "barbone vivaista" che ha reso più belli e lussureggianti i ritagli di verde nel traffico. Agavi ripiantate, palmette, aiuole sghembe, abetini scampati ai salotti, gerani liberati dai vasi. Questo fantasmatico Marcovaldo di Roma Nord io non l'ho mai visto ma so che c'è. Abita in quella che i tassisti chiamano "la villa di cartone". 

Nel bel mezzo della piazza "più piazza" di Roma, ovvero Piazza dei Cinquecento - già il nome dice molto dell'ampiezza - troverete due donne. Amiche, sorelle, madre e figlia? Non si capisce. Fanno da spartitraffico umano in una delle zone più esposte e di passaggio che io conosca, a qualche centinaia di metri dal caos della stazione Termini. La gente intorno non può che andare di fretta, i pullman scaricano i turisti, i motorini sfrecciano. In mezzo alla piazza, un mucchio di coperte da dove sbucano un piede, una faccia o una mano, a seconda della temperatura. 

venerdì 6 gennaio 2017

Carola della Befana

Per le vie della città Marcovaldo non faceva che incontrare altri Babbi Natale rossi e bianchi, uguali identici a lui, che pilotavano camioncini o motofurgoncini o che aprivano le portiere dei negozi ai clienti carichi di pacchi o li aiutavano a portare le compere fino all'automobile. E tutti questi Babbi Natale avevano un'aria concentrata e indaffarata, come fossero addetti al servizio di manutenzione dell'enorme macchinario delle Feste
"Marcovaldo ovvero le stagioni in città" di Italo Calvino 



Oggi tutte le feste vanno via, ma di questa Befana ne voglio acciuffare ancora un pezzetto.


Se c'era una cosa che faceva tanto ridere mio padre era ricordarsi, e riraccontare, un episodio di secoli fa quando, da bambina, sotto le feste di Natale, per la prima volta mi portarono al circo. 

Erano gli anni semplici e cupi dei primi settanta del secolo scorso. Targhe alterne, austerity, lavoratori che ribollivano di rabbia, tutto come adesso, uguale uguale, ma senza telefonini. Sì, eravamo molto meno smart - i golf pizzicavano, noi bambini conoscevamo la noia, i grandi stavano con i grandi e le nonne si vestivano da nonne e non rimorchiavano su FB - ma mi sembravano, dal basso dei miei cinque anni, gran bei tempi. 
Durante le feste si andava a piazza Navona a riempire la calza e ci facevamo la foto con Babbo Natale dalla cui barba, se guardavi in alto, usciva un po' di mento e quando sorrideva gli mancavano i denti. Ma non importava. Soffiavo tutta la mia perplessità dentro la piccola zampogna che mi avevano appena regalato, fatta di una cannetta con un palloncino decorato. Portavo il passamontagna come avrebbero fatto di li a poco i terroristi, è passato di moda.  
I miei tempi semplici. Se mi concentro, risento nel naso l'odore del pavimento - sfigata madeleine - su cui giocavo per ore parlando da sola.
Ma torniamo a quel pomeriggio, quando la famiglia Tartaro si procurò alcuni posti in prima fila per il circo, vicinissimi alla pista perché l'evento della prima volta al circo tutti insieme era troppo importante per risparmiare sul biglietto.
Come eravamo lontani dalle battaglie animaliste che avrebbero giustamente sguarnito i suoi serragli, dai metal detector che un giorno ci avrebbero perquisiti prima di entrare in un luogo pubblico e lontanissimi anche dai piccoli video, in diretta e da condividere all'istante, che ci avrebbero rapinati di quell'hic et nunc in solo click! 
Lontani lontani, e felici, noi eravamo in pista, odore di mangime e pop corn, guardandoci al massimo dalle cacche giganti e da dentoni affilati. Fichissimo.
A un certo punto, il domatore gallonato di oro e di rosso, schiera in circolo i suoi elefanti e schiocca la frusta. Un solco profondo nella sabbia e docili si arrampicano sui tozzi sgabelli. 
Il pubblico trattiene il respiro. 
Un altro schiocco e si alzano su due zampe, qualcuno con più fatica, uno laggiù sbaglia e si gira su se stesso. Ne sento la puzza, sono qui gli elefanti, talmente vicini che li posso toccare ma ho un po' paura e non lo faccio.
Proprio qui, eccolo davanti a me, ne vedo uno che si alza sulle sue due zampone, le altre due traballano in aria, è così grande che mi scherma dal riflettore. 
L'orchestrina tace, breve pausa musicale. 
E subito dopo il classico rullo di tamburi, indicando qualcosa di enorme proprio davanti, davantissimo a me, urlo: "Ma è una donnaaaa!" 
Risero tutti, anche il domatore. Mio padre ha continuato a farlo solo ripensandoci.  

Erano i primi anni settanta. Anni semplici e cupi. 
Il candore di Marcovaldo figlio del boom economico ancora faceva sentire la sua eco rassicurante, tutto il resto sarebbe venuto fra poco. 
Forse erano anche gli anni della mia rivoluzione sessuale, della mia prima presa di coscienza femminista. Forse sì.


(Natale passato)