lunedì 9 gennaio 2017

Freddo da morire

Freddo freddo suolo
arrendo a lui
il mio corpo febbricitante
(Santōka 1882-1940)


Gran parte dei monaci zen che ho frequentato nel mio blog e di cui ho raccontato nel libro viveva di elemosine, oggi verrebbero chiamati barboni, invisibili, dimenticati. Su tutti, e lo sapete, amo Santōka. Anche lui girava a piedi il Giappone, su sandali leggeri e con in testa un cappellone di bambù per ripararsi dalla luce e dalla pioggia, e scaldava mente e corpo con litri di sakè. Sapete anche questo.

Con il clima polare che si è abbattuto sull'Italia dal nord fino alla Puglia - che spala neve alta un paio di metri - alcuni senza tetto, i miei "visibili", sono letteralmente morti di freddo. 
Non posso non pensare a Santōka, agli haiku appuntati sul suo diario, al gelo che gli attanagliava piedi e mani, all'umidità che gli marciva le ossa. I miei monaci zen, ogni tanto, trovavano asilo e un po' di cibo, come sicuramente capita ad alcuni di questi uomini che vediamo in giro qui, tra noi. La morte che si consuma in silenzio ai nostri lati, sotto un cartone di una qualsiasi stazione, sopra una panchina, in totale solitudine - nessun sorriso, lacrima o mano da tenere stretta - è qualcosa che spacca il cuore. Se provi solo a ripeterlo ad alta voce, "morire di freddo", ti si spacca.

Incollo queste righe che, un po' riviste e ampliate, sono anche su Haiku e saké. 

...

Fino al 2010, anno in cui morì, nella piazza dove la dolce vita di Via Veneto precipita verso il basso, piazza Barberini, si agitava un "matto". 
Spernacchiava gli automobilisti fermi al semaforo, urlava cose pazze e slogan contro i politici. Mostrava la lingua a chi lo incrociava a piedi e gli partiva pure qualche sputo.Tutti i giorni lo trovavi lì, i romani se lo ricorderanno di sicuro. Bizzarramente elegante, bretelle colorate, cravatta sopra la felpa, uno stereo a manetta. 
Ballando, perché ballava, faceva vibrare le due antenne che si era incollato sul cappelletto. A volte faceva un inchino pazzo.
Un giorno di tantissimi anni fa prese di punta la nostra macchina, urlando frasi in libertà a mio padre che era alla guida. La mia reazione fu la classica della bambina che si vede in un colpo orfana per colpa di un cattivissimo con antenne. Fatti pochi metri, e rassicurata dal fatto che mio padre era ancora vivo e al volante, riuscii a esclamare d'un fiato "Ma è proprio matto,eh?!" 
Risposta: " E' un tipo simpatico!".
Mi si ribaltò il mondo. Uno così (qui), con quelle antenne, poteva non solo non essere malvagio, ma addirittura simpatico. 

Anni dopo, avrei risposto ai "saluti cantati" di un uomo eternamente sorridente, fisso per anni allo stesso semaforo, che chiedeva l'elemosina ai passanti. Dal taschino della giacca sbucava una forchetta con un pezzetto di pane infilzato. "Per quando non avrò più gnente da magnà!" rispondeva, e tornava a cantare.

Negli anni Novanta ritovavo, quando passavo dalle loro parti, le tracce di una coppia, lui e lei. Due vecchi russi che si erano costruiti una "dacia" di cartoni dalle parti di Via Nazionale e che portavano un colbacco di pelliccia anche d'estate. Occhi chiari e gambe gonfie. In giro, sacchi di roba di tutti i tipi. Cicche in bocca, bottiglie svuotate, pentole e fornelletto.

A Corso Francia so che esiste un "barbone vivaista" che ha reso più belli e lussureggianti i ritagli di verde nel traffico. Agavi ripiantate, palmette, aiuole sghembe, abetini scampati ai salotti, gerani liberati dai vasi. Questo fantasmatico Marcovaldo di Roma Nord io non l'ho mai visto ma so che c'è. Abita in quella che i tassisti chiamano "la villa di cartone". 

Nel bel mezzo della piazza "più piazza" di Roma, ovvero Piazza dei Cinquecento - già il nome dice molto dell'ampiezza - troverete due donne. Amiche, sorelle, madre e figlia? Non si capisce. Fanno da spartitraffico umano in una delle zone più esposte e di passaggio che io conosca, a qualche centinaia di metri dal caos della stazione Termini. La gente intorno non può che andare di fretta, i pullman scaricano i turisti, i motorini sfrecciano. In mezzo alla piazza, un mucchio di coperte da dove sbucano un piede, una faccia o una mano, a seconda della temperatura. 

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