Per le vie della città Marcovaldo non faceva che incontrare
altri Babbi Natale rossi e bianchi, uguali identici a lui, che pilotavano
camioncini o motofurgoncini o che aprivano le portiere dei negozi ai clienti
carichi di pacchi o li aiutavano a portare le compere fino all'automobile. E
tutti questi Babbi Natale avevano un'aria concentrata e indaffarata, come
fossero addetti al servizio di manutenzione dell'enorme macchinario delle Feste
"Marcovaldo ovvero le stagioni in città" di Italo Calvino
Oggi tutte le feste vanno via, ma di questa Befana ne voglio acciuffare ancora un pezzetto.
Se c'era una cosa che faceva tanto ridere mio padre era ricordarsi, e riraccontare, un episodio di secoli fa quando, da bambina, sotto le feste di Natale, per la prima volta mi portarono al circo.
Erano gli anni semplici e cupi dei primi settanta del secolo scorso. Targhe alterne, austerity, lavoratori che ribollivano di rabbia, tutto come adesso, uguale uguale, ma senza telefonini. Sì, eravamo molto meno smart - i golf pizzicavano, noi bambini conoscevamo la noia, i grandi stavano con i grandi e le nonne si vestivano da nonne e non rimorchiavano su FB - ma mi sembravano, dal basso dei miei cinque anni, gran bei tempi.
Durante le feste si andava a piazza Navona a riempire la calza e ci facevamo la foto con Babbo Natale dalla cui barba, se guardavi in alto, usciva un po' di mento e quando sorrideva gli mancavano i denti. Ma non importava. Soffiavo tutta la mia perplessità dentro la piccola zampogna che mi avevano appena regalato, fatta di una cannetta con un palloncino decorato. Portavo il passamontagna come avrebbero fatto di li a poco i terroristi, è passato di moda.
I miei tempi semplici. Se mi concentro, risento nel naso l'odore del pavimento - sfigata madeleine - su cui giocavo per ore parlando da sola.
Ma torniamo a quel pomeriggio, quando la famiglia Tartaro si procurò alcuni posti in prima fila per il circo, vicinissimi alla pista perché l'evento della prima volta al circo tutti insieme era troppo importante per risparmiare sul biglietto.
Come eravamo lontani dalle battaglie animaliste che avrebbero giustamente sguarnito i suoi serragli, dai metal detector che un giorno ci avrebbero perquisiti prima di entrare in un luogo pubblico e lontanissimi anche dai piccoli video, in diretta e da condividere all'istante, che ci avrebbero rapinati di quell'hic et nunc in solo click!
Lontani lontani, e felici, noi eravamo in pista, odore di mangime e pop corn, guardandoci al massimo dalle cacche giganti e da dentoni affilati. Fichissimo.
A un certo punto, il domatore gallonato di oro e di rosso, schiera in circolo i suoi elefanti e schiocca la frusta. Un solco profondo nella sabbia e docili si arrampicano sui tozzi sgabelli.
Il pubblico trattiene il respiro.
Un altro schiocco e si alzano su due zampe, qualcuno con più fatica, uno laggiù sbaglia e si gira su se stesso. Ne sento la puzza, sono qui gli elefanti, talmente vicini che li posso toccare ma ho un po' paura e non lo faccio.
Proprio qui, eccolo davanti a me, ne vedo uno che si alza sulle sue due zampone, le altre due traballano in aria, è così grande che mi scherma dal riflettore.
L'orchestrina tace, breve pausa musicale.
E subito dopo il classico rullo di tamburi, indicando qualcosa di enorme proprio davanti, davantissimo a me, urlo: "Ma è una donnaaaa!"
Risero tutti, anche il domatore. Mio padre ha continuato a farlo solo ripensandoci.
Erano i primi anni settanta. Anni semplici e cupi.
Il candore di Marcovaldo figlio del boom economico ancora faceva sentire la sua eco rassicurante, tutto il resto sarebbe venuto fra poco.
Forse erano anche gli anni della mia rivoluzione sessuale, della mia prima presa di coscienza femminista. Forse sì.
Il candore di Marcovaldo figlio del boom economico ancora faceva sentire la sua eco rassicurante, tutto il resto sarebbe venuto fra poco.
Forse erano anche gli anni della mia rivoluzione sessuale, della mia prima presa di coscienza femminista. Forse sì.
(Natale passato) |
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