lunedì 21 novembre 2022


Spunta dalla radio
una canzone di quando
stavo diventando grande
(Santōka 1882-1940)

“L’agendona era proprietà esclusiva del redattore più anziano. Frutto di anni di lavoro, di poche gratificazioni e forse anche di qualche sevizia, costituiva un bene prezioso come una dote. Veniva consultata con aria da iniziati e a volte trafugata per fotocopiarla di nascosto. In quel mondo cartaceo fatto di schede e diricerche in biblioteca, lavorai come redattrice negli ultimi respiri del 3131, durante la stagione precedente alla chiusura definitiva avvenuta nel 1995, quindi in un periodo mesto e faticoso (quanto al clima surreale, niente di peggio di una trasmissione in chiusura). Gianni Bisiach, anima di Radio anch’io, dall’altra parte del corridoio sembrava sempre un cuor contento e, quando andò in pensione, portò via dai corridoi di viale Mazzini quei suoi modi pratici da americano di Gorizia. Univa alla laurea in medicina la passione per quel tipo di giornalismo investigativo e confidenziale insieme, un po’ da film in bianco e nero, da spy story. Lo ricordo sempre trafelato, con un’aria da cane da caccia”.

Per ricordare Gianni Bisiach ho ripreso quel mio diario di lavoro che fu il libro “Ascoltatori” edito per Add (libro più sfortunato tra quelli che ho scritto, invisibile davvero, e non sapete quanto mi sia dispiaciuto), alla pagina dove racconto proprio quel corridoio dove ci siamo incrociati per non so quanti anni.

Bisiach era tutt’uno col suo lavoro da non aver certo creato una “scuola”, era un direttore d’orchestra, un primario col codazzo. Ma traduceva in sorrisi e slanci di generosità questo suo giocare da solo, e il lavoro lo imparavi osservando quella sua passione. Era la radio che non c’è più (era “lui” la fonte, non certo internet che ancora non esisteva), era la voce che adesso si cercherà nell’archivio audio per ritrovarla come ricordiamo, tonda, sonora, con quella lieve sporcatura friulana nelle vocali, dall’inglese perfetto. Senza narcisismi, conosceva solo la vanità di una camicia bianca fresca di bucato arrotolata sulle maniche. Di lui non sapevamo nulla. Se fosse sposato, separato, mistero. Interrogavo la sua redattrice numero uno, Cecilia, senza ottenere una virgola. Forse esisteva una signora che ne seguiva la vita, privata e professionale, silenziosamente. Nulla di più. 

Brindo alla sua memoria come avrebbe voluto, da Vanni, il caffè a pochi passi da via Asiago, con prosecco e tartine. Un cin cin tra una cosa e l’altra da fare, un momento collettivo che durava il giusto, a cui eri invitato personalmente e a cui teneva moltissimo, e a cui non potevi mancare. Poi bisognava tornare su, al lavoro, al microfono che lo aspettava. Bisognava andare. 

Ciao caro Gianni. 



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