lunedì 12 novembre 2018

A teatro


Per me l’atto più importante della tragedia è il sesto:

il risorgere dalle battaglie della scena,
l’aggiustare le parrucche, le vesti,
l’estrarre il coltello dal petto,
il togliere il cappio dal collo,
l’allinearsi tra i vivi
con la faccia al pubblico.

Inchini individuali e collettivi:

la mano bianca sulla ferita al cuore,
la riverenza della suicida,
il piegarsi della testa mozzata.

Inchini in coppia:

la rabbia porge il braccio alla mitezza,
la vittima guarda beata gli occhi del carnefice,
il ribelle cammina senza rancore a fianco del tiranno.

Il calpestare l’eternità con la punta della scarpina dorata.

Lo scacciare le morali con le falde del cappello.
L’incorreggibile intento di ricominciare domani da capo.

L’entrare in fila indiana di morti già da un pezzo,

e cioè negli atti terzo, quarto, e tra gli atti.
Il miracoloso ritorno di quelli spariti senza tracce.

Il pensiero che abbiamo atteso pazienti dietro le quinte,

senza togliersi il costume,
senza levarsi il trucco,
mi commuove più delle tirate della tragedia.

Ma davvero sublime è il calare del sipario

e quello che si vede ancora nella bassa fessura:
ecco, qui una mano si affretta a prendere un fiore,
là un’altra afferra la spada abbandonata.

Solo allora una terza, invisibile,

fa il suo dovere
e mi stringe alla gola.
("Impressioni teatrali" di Wislawa Szymborska)


Che fortuna scoprire questi versi proprio a teatro. Recitati da un attore alla fine dello spettacolo riscuotevano il pubblico come con un buffetto sulla guancia: Ma lo vedi che è finita? Puoi andare, l'uscita è dietro di te. E' stato vero quello che hai visto, ma è stato anche finto anzi, era vero se ci ripensi, è la messinscena della vita, la mia e la tua, caro mio! 
Gli attori guardavano noi del pubblico, noi loro, chi cercava la borsa o il giaccone sotto la poltrona e il calpestare l’eternità con la punta della scarpina dorata. Le ribalte delle sedute di velluto che si richiudevano, una dopo l'altra, come brevi applausi lontani, attutiti.
C'è un incanto in questa poesia, un incanto del quotidiano, di quando la maschera che indossiamo per fronteggiare gli altri e la realtà, sollevandosi appena, permette di guardarci e di vederci, finalmente, per quello che siamo.


(e mi stringe alla gola)








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