venerdì 7 ottobre 2016

Domande

Vedo la neve cadere
attraverso un foro
nello shoji
(Shiki 1867-1902)


Shiki è un poeta che amo molto, la sua vita così breve che l'ha costretto ad osservare il mondo da un punto di vista sempre più ristretto che si rimpiccioliva per il suo stato di infermità. Si muoveva in uno spazio ridotto, mi turba ogni volta che leggo l'infinito dentro una sua poesia.

In questi ultimi tre giorni ho infilato nella medesima collana, quella mia, quella che porto al collo, la mia vita, tre perle.
La prima è stata la visione, per la seconda volta dopo quella al cinema, (ne avevo già scritto QUI) di "Fuocoammare" di Gianfranco Rosi, la seconda perla è stato il documentario di Marina Abramovic dal titolo "The space in between", la terza l'ho infilata andando a teatro per l'Orestea di Romeo Castellucci.
Tre perle, tre modi di parlare di vita e di morte attraverso l'arte. 
La quotidianità dei pescatori lampedusani e quella dei migranti ammarati come pesci agonizzanti, la lentezza del movimento parallelo di due mondi. Due pianeti che girano, leopardiani e inesorabili, muti, che parlano lingue che non si capiscono, che forse si guardano.
La ricerca artistica ed esistenziale di Marina Abramovic. Fino dove posso arrivare? Come farò a sopportare? Come capire la morte? Come capire la vita se non attraverso quello spazio in mezzo, quella soglia da varcare?
E gli incubi di Castellucci. Grandiosi, rumorosi, pittorici. Dove i personaggi in scena hanno la nostra taglia, noi come loro e loro come noi. Nessun protagonista, nessuna voce più forte di un'altra. Un farfuglìo continuo, i nostri incubi come quelli di Eschilo. La stessa rappresentazione da duemila anni.
Tre meraviglie, tre intellettuali, tre cervelli, tre idee. 
Tre perle che ti raccontano di una società contemporanea, di un tempo che viviamo e dei suoi interrogativi che riesci a scorgere anche guardando dove ti indicano loro. 
In quel buco nello shoji , la parete scorrevole perimetro della piccola stanza che fu di Shiki.

Della notizia della morte di cancro di un uomo nell'ospedale romano, abbandonato a se stesso per cinquantasei ore nel caos e nell'indifferenza, vi riporto il dettaglio del paravento. A un certo punto della sua lettera aperta, quasi sospendendo il tono di denuncia di quanto lui e suoi cari hanno dovuto subire, il figlio Patrizio Cairoli, dice: 
"abbiamo dovuto insistere per ottenere un paravento, non di più, perché gli altri "servono per garantire la privacy durante le visite"; una persona che sta morendo, invece, non ne ha diritto: ci hanno detto che eravamo persino fortunati. Così, ci siamo dovuti ingegnare: abbiamo preso un maglioncino e, con lo scotch, lo abbiamo tenuto sospeso tra il muro e il paravento; il resto della visuale lo abbiamo coperto con i nostri corpi, formando una barriera."
Un paravento. Un piccolo paravento a protezione del grande mistero, una soglia portatile tra qua e là. La barriera dei corpi, l'intimità da proteggere. L'attesa, la disperazione. La solitudine.

Vedo la neve cadere, ci dice Shiki che con l'Abramovic, Rosi e Castellucci ce la fa guardare.


(passaggio)









Nessun commento:

Posta un commento