sono insonne;
il futuro mi spaventa
(Issa 1763-1827)
Dedico questo tenero haiku di Issa a tutti i ragazzini che non riescono a dormire perché hanno paura, piccole vittime di una violenza silenziosa e crudele come quella fra coetanei.
E questa storia di tanti anni fa.
Era un pomeriggio di luglio. Ero al mare, a Ostia, per una di quelle domeniche di quasi vacanza su e giù da Roma in cerca di un po' sole. Il costume sotto la gonna jeans, la borsa carica di asciugamani e giornalini, la postazione nella cinquecento di mamma quella solita: davanti. Così contavo gli alberi della Via del Mare, intravedevo le rovine di Ostia Antica per prima e spiavo meglio quelli che ci superavano.
Ma quel giorno d'estate fu diverso dagli altri e si inserì, nel mio calendario personale, di fatto, tra quelli "indimenticabili". Ma ancora non lo sapevo.
Avevo circa tredici anni anni, ricordo bene il mio costume, era quello optical bianco, rosso e blu. I triangoli del pezzo di sopra si riempivano poco da farmelo sempre spostare e aggiustare, sul corpo ancora senza forme. Ero a metà. Tra quel mondo lì, che ancora vedevo vicino (infanzia, bambole, giochi per terra) e questo qui, quello dove mi trovavo già. Nessun punto vita da evidenziare con una bella cintura, nessuna mossa maliziosa, la seduzione un pianeta sconosciuto che non mi interessava. Piuttosto facevo eccentriche prove generali di bellezza, un po' fai da te, a dire il vero, come attaccare un piccolo ciclista autoadesivo dorato alla lente dei miei ray-ban gialli (ancora ricordo la sensazione di fierezza allo specchio, mai sentita meglio), dormire con il naso schiacciato sul cuscino per cercare di ottenere la bocca che scoprisse un po' gli incisivi, tale e quale a quella, per me bellissima, della mia migliore amica, oppure la fissa della visiera, un triangolo di plastica rigida verde, che mettevo a mo' di cerchietto per evitare che i capelli mi andassero sugli occhi - e quindi sugli occhiali fichissimi - e che finiva per stare ritta, con la punta verso il cielo. Non me ne curavo che stesse all'insù perché, l'avrei capito anni dopo, stavo ancora con un piede lì, ero ancora regina di un interregno pre-tutto.
E così come ero, costume storto, occhiali col ciclista e visiera dritta, mi sentivo una vera miss universo 1980.
Mi apprestavo a passare il mio pomeriggio, con mia madre che stava con le sue amiche sotto l'ombrellone e che si spupazzava la mia sorellina intenta nei castelli di sabbia. Non avevo amici-del-mare ma stavo bene anche sola. La sacca la riempivo di quaderni e pennarelli, dei libri delle vacanze e di bacche che raccoglievo dai cespugli bordo piscina per farne un giorno dei profumi buonissimi. E aspettavo l'ora per il bagno dopo mangiato. Posso dirlo? Mi sa che ero felice.
Vidi un'altalena all'ombra, ci salii e iniziai a dondolare, in quel pomeriggio che non dimenticherò più. Ero sola. Forse cantavo qualche cosa. Figli delle stelle? Possibile. Mi rinfrescavo al vento, sentire l'attrito della visiera era bellissimo. Un po' windsurf. Sul sedile ancora ci entravo. Fra un po' mi farò il bagno, pensavo.
Alcuni ragazzini si appostarono silenziosi alle mie spalle. Quanti erano? E perché non ridevano tra loro, perché non parlavano? Capii in quell'istante che quella sarebbe stata una giornata che non avrei più dimenticato. Alcuni li conoscevo, li vedevo giocare partite di pallone sulla spiaggia, sgambettavano lucidi, magri, spavaldi, dicevano parolacce, mi sembravano piccoli dei inavvicinabili. Uno di loro era il figlio del gelataio di Ostia, questo lo sapevo, era identico a suo padre. Un bel ragazzino sempre con la sabbia appiccicata alle spalle nere di abbronzatura.
Continuavo a dondolare sulla mia altalena mentre il gruppetto, a un segnale che non vidi ma che immaginai, decise di prendere di mira miss universo 1980. Letteralmente di mira.
Staccavano le bacche dai cespugli e me le lanciavano sulla schiena. Le staccavano via via, una dopo l'altra, e mi gridavano "ah mostrooo!", "mostro, mostro!", "mostrooo!".
Continuavo a dondolare, mani serrate sulle due catene che reggevano il suo sedile, canticchiando sempre più piano, sempre più piano, sempre più dentro. Non scappavo.
Non a caso ero miss universo 1980.
Rimasi lì, sempre dondolando, mentre bacche e parole si infrangevano una dopo l'altra sulle mie spalle, sulle gambe, sulle dita, mi si impigliavano tra i capelli. Facevano male.
E poi? Non ne volli sapere di girarmi verso di loro o di scendere dall'altalena. Un misto di coraggio e disperazione. Continuai con il mio su e giù e i ragazzetti si stancarono. Tutto qui. Tutto tacque.
Silenzio e di nuovo le cicale.
Quanto durò? Non me lo ricordo più. Il mio interregno, di cui ero la regina assoluta, finì quel giorno.
Presi da terra la mia sacca, me la misi a tracolla facendo sempre molta attenzione alla visiera, mi incamminai verso l'ombrellone di mia madre.
"Susanna, cosa c'è?"
"Niente, mami, tutto ok."
"Che dici, torniamo a casa? Si è fatto tardi..."
"Ok."
Molti anni dopo, ma molti anni, in un pomeriggio di luglio indimenticabile, di quelli che il calendario personale incornicerebbe di rosso, sono tornata a Ostia.
"Ti va un gelato?"
"Entriamo, so che questa gelateria è la migliore di Ostia"
E dietro al bancone ho visto il ragazzetto di allora, imbolsito e oggi sussiegoso, che mi chiede:
"Signora, che gusto?"
"Bacche!"
Ma invece ho detto "Crema e cioccolato, grazie!".
Ho preso il mio cono e sono uscita dal bar.
(Costruzione di sé) |
Grazie per questa storia. Anche io sono stata quella ragazzina in bilico. Solo attraverso alcune pagine di Stephen King ho provato la stessa rabbia, impotenza, la stessa tenerezza. Simonetta
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