mercoledì 28 gennaio 2015

Sumo

Ad essere sconfitto
è stato un bonzo.
Incontro di sumo
(Takari Kikau 1661-1707)




Due o tre giorni fa il lottatore yokozuna Hakuhō Shō si è aggiudicato un record storico vincendo trentatre gare di sumo (clicca qui per il video). 

Il sumo, nato intorno al VI secolo e via via evolutosi da rito religioso a combattimento sportivo, ha regole semplici. Per vincere è necessario buttare fuori dalla linea tracciata sul pavimento, un cerchio disegnato a terra, il possente avversario. E' stato così molto facile, quando mi è capitato di assistere a un incontro in occasione di un mio viaggio in Giappone, capire il senso di quello che stavo vedendo, ma molto più complicato entrare dentro i singoli gesti e riuscire a distinguere le variazioni tecniche, più di settanta, di presa e atterraggio. 
Ancora più difficile spiegarsi come corpi di quella stazza possano essere aggraziati e portentosi insieme. 
Qui vi propongo qualche mia impressione durante un vecchio incontro, sicuramente meno incisiva della nitida micro-cronaca di Kikau, allievo coltissimo tra i prediletti di Bashō. 
Ma non aspiro a tanto.


(Tokyo. Io sono alle sue spalle. Parola di Dailyhaiku!)

Il sumo attrae migliaia di tifosi da tutto il Giappone che si raccolgono ordinati e festanti sugli spalti. Gli incontri sono brevissimi, uno dopo l'altro, e il pubblico, comprando un biglietto valido per molte ore, passa dentro lo stadio quasi una giornata e fa un po' "casetta". I tifosi chiacchierano compostamente seduti su tappetini disposti per l'occasione mangiando qualcosa di buono tirato fuori dai bento, bevono bibite e té fumanti. I bambini piccoli dormicchiano o giocano con qualche giochino, i più grandi seguono curiosissimi quello che succede al centro del dohyoSi freme alla vista del preferito, si rumoreggia con palese disappunto se questi viene atterrato. 
Nessun fumogeno o bomba carta, nessun coro violento, nessun coltello o katana mimetizzati nel giubbotto, nessuno sguardo truce. Gli atleti sono composti, silenziosissimi, regali. Il pubblico accoglie qualsiasi decisione presa dall'arbitro con rispetto devozionale. Corna, sputi e pernacchie, di nostrana tradizione sportiva, anch'essa molto antica, non pervenuti.
Si ha la netta sensazione di assistere a qualcosa di sacro e ludico insieme con tracce di gioiosa eccitazione infantile. 
Altissima la concentrazione mentale dei tifosi e degli atleti durante il brevissimo incontro, a volte di pochi secondi, il cui inizio è caratterizzato da una sorta di rito officiato dall'arbitro, il gyoji, che presenta al pubblico i lottatori con il loro nome da combattimento, ad alta voce e senza microfono. In mano ha un ventaglio splendididamente colorato. Altri arbitri secondari in kimono nero, maestri ed ex lottatori, osserveranno il match, con l'attenzione dovuta, dai lati. 
Gli spogliatoi sono aperti e gli atleti, miti assoluti nell'immaginario collettivo giapponese, lasciano magnanimi che qualche curioso possa accedervi. Anche io l'ho fatto, ho sbirciato qua e là, ho scattato foto. Non c'erano tifosi, gironzolavo indisturbata nel via vai di massaggiatori e addetti alla vestizione. Se mi concentro, riesco a ricordarmi ancora il profumo degli unguenti che si spalmavano addosso. Sapeva di buono, qualcosa tra la canfora, gli agrumi e polvere di riso. 
Nessuna goccia di sudore, nessuna traccia di umanità. Meraviglioso è stato osservarli quando si pettinavano, creando la lucidissima impalcatura di capelli nerissimi a forma di foglia di ginko chiamata oicho.

I lottatori di sumo sono delle divinità, sanno di esserlo ed io ero un insetto in quel momento, invisibile ai loro occhi, alteri e assenti
La gentilezza sembrano praticarla come filosofia di vita. Girano per strada in kimono e, con quell'aria da bambini giganti, mangiano zuppe di ramen ai chioschi, sorridono condiscendenti se qualcuno chiede loro un autografo, sono silenziosi e assorti.
Ecco il mio sumo. Rito, sport, forma d'arte, cartone animato, arte marziale. 


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