sabato 26 agosto 2017

L'onda


La notte lava la mente.

Poco dopo si è qui come sai bene,
file d'anime lungo la cornice,
chi pronto al balzo, chi quasi in catene.

Qualcuno sulla pagina del mare
traccia un segno di vita, figge un punto.
Raramente qualche gabbiano appare.
("La notte lava la mente" di Mario Luzi)



Quando leggo dell'ennesimo episodio razzista o di una nuova ordinanza contro "i neri", quando ascolto frasi idiote sulla razza, "casa mia" e "casa loro", quando sento discettare di improbabili differenze tra migranti economici e migranti politici e su quello che noi dobbiamo fare e su quello che loro eccetera, quando si danno numeri a caso, le ong diventano la causa del male insomma quando l'idrante della sicurezza travolge tutto, come è successo a Piazza Indipendenza a Roma, penso al recente sbarco sulla spiaggia di Cadice. E mi riprendo pensando a quell'onda.
In che senso, vi chiederete, ti riprendi, che sulle spiagge di Cadice, in Spagna, tra gli ignari turisti che prendevano il sole, sulla riva ne sono sbarcati in circa cento solo una settimana fa, in che senso ti riprendi? E che correvano tra la gente in costume a balzi veloci nonostante fossero stravolti per la traversata, il gommone sulla riva come una balena spiaggiata, tutta l'adrenalina addosso per non farsi beccare, in che senso? 
Pelli lucide che creano l'onda nera che si frange sulla riva (video QUI).

L'ondata dei migranti vincerà comunque, chi pronto al balzo, chi quasi in catene. 

Vince per la forza vitale che porta, gambe muscolose capaci di scavalcare il mare, vita che cerca vita. I bambini piangono ma non hanno paura e vanno avanti, le giovani donne sotto turbanti colorati vanno veloci, i grembi fertili. Giovani uomini, ragazzi belli, fieri, lo sguardo lontano procedono a grandi falcate.  
Sbarcano sulle nostre coste gli atleti della sopravvivenza, i campioni mondiali di voglia di vivere.
Ad attenderli ci siamo noi flaccidi e vecchi e pieni di pregiudizi. Ci spalmiamo le creme sulle panze rosicando d'invidia mentre quest'onda splendente di giovinezza ha deciso per tutti.
E sì che mi riprendo!


(Aspettando l'onda)









lunedì 14 agosto 2017

Estate romana


A immaginare una vita ce ne vuole un’altra
già pronta a disperdersi
già pronta a non
restituirsi niente a dimenticarsi anche le
parole.
Sembra di scherzare a notte fonda e solitaria
sembra di avere un’età distinta da qualcos'altro
uno stormo che gira attorno gridando
un profumo impreciso di carne bruciata
o un testamento o una casa da acquistare

non so dove (...)
(da "Ecchime" di Victor Cavallo)


Per me l'estate a Roma è come un vecchio film di Carlo Verdone. E' respirare la stessa atmosfera ogni anno, a dispetto di nuove giunte comunali e di gelaterie hipster, la stessa atmosfera da film vecchio.
Un sacco bello è stato girato d'estate. L'aria calda, il sudore, lo zoo deserto, il romano alla Brega (so' communista così), l'ovatta nei pantaloni. Marisol.  
Ci vedo la malinconia che amo di più, quella del sorriso triste, quella di un pezzetto di cuore spezzato ma non proprio del tutto, quella di "Pranzo di Ferragosto" di Di Gregorio o di "Estate romana" di Garrone.

A immaginare una vita ce ne vuole un’altra
già pronta a disperdersi
già pronta a non
restituirsi niente a dimenticarsi anche le
parole.

Sono film mezzi vecchi,  visti e rivisti.  
Un sacco bello quando uscì, nel 1980 mi piacque moltissimo. Verdone già lo conoscevo. L'ho scoperto in un piccolo teatro romano due anni prima grazie a mio padre. L'avrò ringraziato per avermici portata quella volta? Tutte quelle risate che mi facevo anche io, e che erano uguali a quelle dei grandi anche se avevo dodici anni, caspita, che serata, io e mio padre!, avrei dovuto ridirglielo, l'avrò fatto?
Al cinema, invece, sono quella seduta tra mia nonna e la vecchia signora  vestita di viola che chiamavamo zia per comodità ma che non lo era affatto. Una parente lontana, un po' tirchia si diceva ridendo, a casa. Io sono quella con la fossetta e i rayban gialli, la ragazzina con la maglietta Fruit of The Loom e la tolfa a tracolla. 
All'uscita del cinema - la silhouette di Charlot che si muoveva in una vetrina accanto alla biglietteria del Roxi era per me un'indimenticabile malìa - le due se la litigano di brutto.
Mia nonna, labbra serrate e occhi al cielo, tenta di convincere l'altra che è proprio lui, è quel Carlo Verdone a fare tutti i ruoli non erano mica attori diversi come invece sosteneva caparbiamente la zia. 
Io taccio, come sempre quando i grandi discutevano, ero totalmente d'accordo con mia nonna ma taccio, le faccio solo una faccetta d'intesa. 
E poi rituffo la mano negli ultimi pop corn, in pace con l'universo.


(estate romana)













giovedì 10 agosto 2017

Zanzare e tartarughe


Una fila di zanzare in volo
forma un fluttuante
ponte di sogni
(Takarai Kikaku 1661-1707)


I ragazzini non hanno mai nulla in mano.
Noto solo ora - sono i tempi elastici dell'estate a permettermelo - che non portano pesi. Fluttuano leggeri, come zanzare in volo.
Le borse, le buste, le tracolle, i pacchi, i borsoni arriveranno dopo, fra qualche anno. Continuo a osservarli mentre si godono inconsapevoli le mani libere, i capelli che non si impigliano, le spalle senza contratture e che gli donano quell'andatura un po' frolla.
Vorrei fermarli, e dirlo a ognuno di loro, mentre incastro la sacca dentro il mio bauletto, "Bello, bella, goditela tutta, tutta, questa leggerezza!"
Ma la frase mi rimane chiusa nel casco che mi sto agganciando sotto la gola. Salgo sul motorino e metto in moto.

(tutto il peso del mondo)


martedì 8 agosto 2017

Con il caldo che fa


Con me non bisogna parlare,
ecco le labbra: date da bere.
Ecco i miei capelli: carezzali.
Ecco le mani: si possono baciare.
- Meglio però, fatemi dormire
(Marina Cvetaeva)


L'altra mattina, prestissimo, erano le 5 e 40 precise, ho visto l'ora, sono stata svegliata da un rumore continuo, come di un aspiratore.
Scendo dal letto, mi affaccio. Sì, è proprio un aspiratore.
Attaccato al tubo, l'addetto della società della pulizia delle strade che lustra, meticoloso, il bordo del marciapiede sgombrandolo dalle foglie cadute. Sembra non curarsi affatto dei cassonetti che traboccano, delle mosche che pasteggiano coi gabbiani e i topi. Lui è l'addetto alle foglie bordo strada. E così, alle 5.40, fa quello che deve fare con caparbia ottusità. Me ne torno a letto.
Le 8.00, altro rumore, altra finestra. Mi riaffaccio. Trebbiatura?
L'aiuola che per dieci mesi all'anno pare un'Amazzonia, con relativo habitat per ratti e pappagalli, il giardino un po' hippy che ci piace guardare dalla finestra, incolto e anarchico, spesso cestino dei rifiuti di chi ci passa solo perché un po' verde, dicevo, l'amazzonia sotto casa, è stata letteralmente arata da un tipo che ancora vedo alla guida del suo trattore. Pareggia, sbarba, tosa tracciando strisce gialle dietro di sé e alza un odore di campagna malaticcia. L'erba tagliata rimane dove sta. Nessuno la raccoglierà mai in piccoli covoni da smaltire, no. Tutto rimarrà così, come sta. A strati. Come tutto a Roma.
Non ci voglio pensare, preferisco riconoscere nel brullo le sagome dei quattro ciuffi di oleandro e, più in là quelle degli alberi di Giuda, resistenti, e mi basta. Gli strani papiri nostrani, il canneto fitto fitto, tutto il bel fiorame sconclusionato che movimentava con la cicoria selvatica e l'ortica questo spazio ricavato tra i palazzi, rasato. Zac. Il corto manto di erba arsa lascia scoperte una cartaccia qua, una lattina che brilla laggiù, un coccio di vetro che nessuno raccoglierà mai.
Sono passate, nel calore totale, una decina di ore ancora.
Ho fatto le mie solite cose da vacanza cittadina. Ho lavorato, dentro una bolla di aria condizionata insieme ai colleghi rimasti, sono andata al cinema con mia madre e abbiamo preso un gelato, Scegliamoci un posto al fresco, Susanna!, per me una coppa piccola, no, meglio media, sì, media, cioccolato e nocciola. Grazie. E la panna, grazie.
E sono tornata a casa. 
Parcheggio. Il quartiere è vuoto, così silenzioso, anche le cicale stasera se ne stanno zitte. 
I lavori di aspirazione e trebbiatura, eccentrico decoro urbano che dura un paio d'ore l'anno, sono terminati.
Fa sempre più caldo.  
Solo i disperati popolano il caldo, penso, solo quelli che non hanno nessuno come il tizio magro che sta urlando, da solo, verso il fiume, un Chisciotte metropolitano che incontro spesso e da cui distolgo lo sguardo, ma so bene che è giovane, alto e, quando mi supera, gli osservo le scapole aguzze dentro la maglietta. Ha braccia nervose. E le scarpe sporche. 
Ma ora sono qui alla finestra, al sicuro, a cercar di capire cosa dice.  
Chisciotte parla forte anche se non c'è mai nessuno con lui, bestemmia come bestemmia d'inverno, sia chiaro, proprio uguale ma, con il caldo, sembra tutto molto più duro.


(giungla urbana)

lunedì 7 agosto 2017

Conosco i miei lonfi


Il lonfo non vaterca né gluisce
e molto raramente barigatta,
ma quando soffia il bego a bisce bisce
sdilenca un poco, e gnagio s’archipatta.
È frusco il lonfo! È pieno di lupigna
arrafferia malversa e sofolenta!
Se cionfi ti sbiduglia e t’arrupigna
se lugri ti botalla e ti criventa.
Eppure il vecchio lonfo ammargelluto
che bete e zugghia e fonca nei trombazzi
fa lègica busìa, fa gisbuto;
e quasi quasi, in segno di sberdazzi
gli affarfaresti un gniffo. Ma lui zuto
t’alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi.
("Il lonfo" di Fosco Maraini)


Non mi direi un'animalista, nel senso di attivista.    
E, lo ammetto, le diete di qualsiasi genere mi annoiano; le privazioni mi intristiscono e, se conto, cedo alle tentazioni senza neanche arrivare al 3. 
A proposito, fuggo anche i troppo religiosi; su di me i loro precetti scivolano tra uno sbadiglio e uno stiracchio.
Insomma, poco -ista e pochi -ismi, per quanto mi riguarda.  
Ma nessuno tocchi il lonfo, siete avvertiti!!!


Ho divorato in un sol boccone "Conosco i miei polli" di Margherita d'Amico - si potrà mangiare metaforicamente la carta in santa pace o è politicamente scorretto? -  ovvero il manualetto delle frasi fatte dove un animale caratterizza una nostra abitudine. Spesso in modo improprio.
La lingua ci definisce per quello che siamo, quindi: mangio tanto? Avrei "una fame da lupo" (se solo il lupo si ingozzasse, cosa che in realtà non fa mai). Ho una febbre da cavallo? Tutto bene! (gli equini hanno una temperatura come la nostra, uguale uguale). 
E sapevate che le cavallette si stanno estinguendo? Attenzione a usarle come epiteto dispregiativo, dunque. Sul sorcio, niente paura, non è una specie a rischio, e quindi d'Amico può divertirsi e ricostruisce l'origine dell'espressione "far vedere i sorci verdi" (pag 30). 
Godibilissimi, gli istruttivi paragrafetti "scopare come ricci", "avere grilli per la testa" o "sentirsi una cozza". Lo dobbiamo ammettere: noi umani siamo molto, molto approssimativi.  
Nello scaffale, sezione "A", di allegria, sistemerei anche questo piccolo volume illustrato, in bella vista, vicino a "Gnosi delle fànfole" di Maraini e alle filastrocche di Toti Scialoja.   

Frenando il triciclo mi chiede il tricheco:
"Sai dirmi, da amico, dov'è che mi reco?".
(Toti Scialoja)


(polli e farfalle)





   

      

venerdì 4 agosto 2017

ONG


Pescatori d'acqua dolce -
una voce dice:
"tornate a casa"
(Yosa Buson 1715-1783)


Sulla questione "ONG e favoreggiamento dell'immigrazione", sulle ragioni della procura di Trapani e quelle delle varie Jungen Rettet, lo ammetto, potrei cercare con molto più interesse una qualche informazione. Qualcosa che mi illumini un po', qualche pezzo pacato su cui riflettere e che mi offra un bandolo in tutto questo casino, uno spiraglio qualsiasi sulla verità (leggi QUI)
Ma in tempi friabili come questi è come se rifiutassi di interessarmene. Intraleggo solo, ma chiaramente, le ennesime possibili strumentalizzazioni del tipo: siamo troppi, tornate a casa, ci rubano il lavoro, aiutiamoli a casa loro, migranti economici no, migranti politici sì, profughi boh...
Uniche, solide, certezze.


(Torno subito)