domenica 4 agosto 2019

Estate romana


A immaginare una vita ce ne vuole un’altra
già pronta a disperdersi
già pronta a non
restituirsi niente a dimenticarsi anche le
parole.
Sembra di scherzare a notte fonda e solitaria
sembra di avere un’età distinta da qualcos'altro
uno stormo che gira attorno gridando
un profumo impreciso di carne bruciata
o un testamento o una casa da acquistare
non so dove (...)
(da "Ecchime" di Victor Cavallo)


Per me l'estate a Roma è come un vecchio film di Carlo Verdone. E' respirare la stessa atmosfera ogni anno, a dispetto di nuove giunte comunali e di gelaterie hipster, la stessa atmosfera da film vecchio.
Un sacco bello è stato girato d'estate. L'aria calda, il sudore, lo zoo deserto, il romano alla Brega (so' communista così), l'ovatta nei pantaloni. Marisol.  
Ci vedo la malinconia che amo di più, quella del sorriso triste, quella di un pezzetto di cuore spezzato ma non proprio del tutto, quella di "Pranzo di Ferragosto" di Di Gregorio o di "Estate romana" di Garrone.

A immaginare una vita ce ne vuole un’altra
già pronta a disperdersi
già pronta a non
restituirsi niente a dimenticarsi anche le
parole.

Sono film mezzi vecchi,  visti e rivisti.  
Un sacco bello quando uscì, nel 1980 mi piacque moltissimo. Verdone già lo conoscevo. L'ho scoperto in un piccolo teatro romano due anni prima grazie a mio padre. L'avrò ringraziato per avermici portata quella volta? Tutte quelle risate che mi facevo anche io, e che erano uguali a quelle dei grandi anche se avevo dodici anni, caspita, che serata, io e mio padre!, avrei dovuto ridirglielo, l'avrò fatto?
Al cinema, invece, sono quella seduta tra mia nonna e la vecchia signora  vestita di viola che chiamavamo zia per comodità ma che non lo era affatto. Una parente lontana, un po' tirchia si diceva ridendo, a casa. Io sono quella con la fossetta e i rayban gialli, la ragazzina con la maglietta Fruit of The Loom e la tolfa a tracolla. 
All'uscita del cinema - la silhouette di Charlot che si muoveva in una vetrina accanto alla biglietteria del Roxi era per me un'indimenticabile malìa - le due se la litigano di brutto.
Mia nonna, labbra serrate e occhi al cielo, tenta di convincere l'altra che è proprio lui, è quel Carlo Verdone a fare tutti i ruoli non erano mica attori diversi come invece sosteneva caparbiamente la zia. 
Io taccio, come sempre quando i grandi discutevano, ero totalmente d'accordo con mia nonna ma taccio, le faccio solo una faccetta d'intesa. 
E poi rituffo la mano negli ultimi pop corn, in pace con l'universo.


(estate romana)












sabato 3 agosto 2019

Agosto


Cantano le cicale
sulle pere avvolte
in buste di carta
(Issa 1763-1827)

Agosto, notti di stelle e giorni di cicale. È quando lontano e vicino si confondono, quando il freddo siderale sfiora il caldo quaggiù.
I monaci zen con il kigo estivo della cicala si sono sbizzarriti regalandoci haiku come questo, che molto ha del quadretto impressionista. Più modestamente ho anche io la mia esperienza mistica: ascoltare le cicale che attaccano all'unisono, un coro e poi un assolo, il crescendo e il repentino silenzio per poi ricominciare. Una meditazione sciuè sciuè in grado di connettermi direttamente con il cosmo, che mi fa sentire viva. E che mi connette con chi non è più.


(Cicala estiva)

giovedì 1 agosto 2019

Uno in piedi, conta gli spiccioli sul palmo


Uno in piedi, conta gli spiccioli sul palmo
l’altro mette il portafoglio nero
nella tasca di dietro dei pantaloni da lavoro.

Una sarchia la terra magra di un orto in salita
la vestaglia a fiori tenui
la sottoveste che si vede quando si piega.

Uno impugna la motosega
e sa di segatura e stelle.

Uno rompe l’aria con il suo grido
perché un tronco gli ha schiacciato il braccio
ha fatto crack come un grosso ramo quando si è spezzato
e io c’ero, ero piccolino.

Uno cade dalla bicicletta legata
e quando si alza ha la manica della giacca strappata
e prova a rincorrerci.

Uno manda via i bambini e le cornacchie
con il fucile caricato a sale.

Uno pieno di muscoli e macchie sulla canottiera
Isolina portami un caffé, dice.

Uno bussa la mattina di Natale
con una scatola di scarpe sottobraccio
aprite, aprite. È arrivato lo zio, è arrivato
zitto zitto dalla Francia, dice, schiamazzando.

Una esce di casa coprendosi un occhio con il palmo
mentre con l’occhio scoperto piange.

Una ride e ha una grande finestra sui denti davanti
anche l’altra ride, ma non ha né finestre né denti davanti.

Una scrive su un involto da salumiere
sono stufa di stare nel mondo di qua, vado in quello di là.

Uno prepara un cartello
da mettere sulla sua catasta nel bosco
non toccarli fatica a farli, c’è scritto in vernice rossa.

Uno prepara una saponetta al tritolo
da mettere sotto la catasta e il cartello di prima
ma io non l’ho visto.

Una dà un calcio a un gatto
e perde la pantofola nel farlo.

Una perde la testa quando viene la sera
dopo una bottiglia di Vov.

Una ha la gobba grande
e trova sempre le monete per strada.

Uno è stato trovato
una notte freddissima d’inverno
le scarpe nella neve
i disegni della neve sul suo petto.

Uno dice qui la notte viene con le montagne all’improvviso
ma d’inverno è bello quando si confondono
l’alto con il basso, il bianco con il blu.

Uno con parole proprie
mette su lì per lì uno sciopero destinato alla disfatta
voi dicete sempre di livorare
ma non dicete mai di venir a tirar paga
ingegnere, ha detto. Ed è già
il ricordo di un ricordare.

Uno legge Topolino
gli piacciono i film di Tarzan e Stanlio e Ollio
e si è fatto in casa una canoa troppo grande
che non passa per la porta.

Uno l’ho ricordato adesso adesso
in questo fioco di luce premuta dal buio
ma non ricordo che faccia abbia.

Uno mi dice a questo punto bisogna mettere
la parola amen
perché questa sarebbe una preghiera, come l’hai fatta tu.

E io dico che mi piace la parola amen
perché sa di preghiera e di pioggia dentro la terra
e di pietà dentro il silenzio
ma io non la metterei la parola amen
perché non ho nessuna pietà di voi
perché ho soltanto i miei occhi nei vostri
e l’allegria dei vinti e una tristezza grande.
("Parole povere" di Pierluigi Cappello)


Per il lettore funziona, un libro come pane per nutrire l'animo e rampino per scalare l'esistenza; nei momenti bui, leggere può illuminare il dolore che proviamo - menomale che ci sono gli scrittori, che fortuna abbiamo a scoprirli e amarli. Su questo rapporto, simbiotico, tra noi e la letteratura, si muove la vicenda raccontata da Alberto Garlini che ne "Il canto dell'ippopotamo" dà vita agli ideali personaggi di lettore e autore, nelle persone, appunto, di Garlini stesso e del poeta Pierluigi Cappello. E' la storia di un'amicizia, del nutrimento che uno offre all'altro e dei colpi che la vita riserva. Garlini usa la poesia del suo amico "Parole povere" come il filo a piombo per l'intera architettura del libro e invita il lettore a cercare i versi on line, o sui libri, a leggerli e a rileggerli alla luce dei fatti appena narrati, creando un gioco di specchi, una fiaccola da passare di mano in mano. 
Ho seguito l'indicazione e l'ho fatto. E rifletto, con voi che leggete adesso, sul senso di povertà nel titolo stesso della poesia, sull'atto di denudarsi per vedere meglio quello che accade, per riuscire a vedersi con i tutti i limiti e le cadute. 
E guardando chi mi sfila davanti, provo a considerare il peso della sua irripetibilità.   

Uno è stato trovato
una notte freddissima d’inverno
le scarpe nella neve
i disegni della neve sul suo petto.

Una ride e ha una grande finestra sui denti davanti
anche l’altra ride, ma non ha né finestre né denti davanti.

Uno legge Topolino
gli piacciono i film di Tarzan e Stanlio e Ollio

Nell'episodio del cane, lo leggerete, Garlini ricostruisce un episodio per il quale non si è perdonato e che riaffiora. Una violenza gratuita ed eccessiva, compiuta in vece dell'amico immobilizzato, per lui, che non poteva permettersela perché sulla sedia a rotelle. 
Pugni dati come gesto d'amore. 


(amici)

venerdì 19 luglio 2019

Luciano De Crescenzo



il topo poi rosicchiò
l’anima bianca del foglio
(“…per cosa… per cosa
continueremo a parlare?”)
la candida luna svelò
di essere un cieco budello
la luna immensa brillò
sulla tabe della siepe
(“…che dice… perché
la luna non tace?”)
altissima la goccia arrivò
e la mia lingua
ogni lingua scavò…
(La luna in "Cumae" di Michele Sovente

Andarsene in sordina, senza clamore, aiutato dal calendario e dal fato, ieri c'è stato Camilleri, domani ci sarà la luna. Non gli dispiacerà, Luciano De Crescenzo l'avrebbe presa con filosofia. 

Il mio omaggio attraverso la copertina di un suo vecchio libro - la dedica ancora recita da zio Pasquale, Capodanno 1980 - ricevuto da un vecchio, per la me d'allora, zio napoletano, simpatico e di poche parole. Fu un libro a suo modo importante, prima di tutto la dedica tutta per me, e forse mi iniziò a uno sguardo sulle cose più ironico, come fu quello del suo autore e di quel mio zio.
Fotografare con micro didascalie mi aiuta a misurare il mondo, a metterlo a posto, a cercare di capire dove sono precipitata. Forse lo devo a quel regalo laggiù.






Luna tu


O luna alta nel cielo,
sott'acqua e sotto terra
mostra la terra in cielo
e mostra il cielo in terra!
(da "Belluno" di Patrizia Valduga) 


Nelle religioni dell'antica Grecia, Selene è la dea della Luna, figlia di Iperione e di Teia, sorella del Sole (Helios) e di Eos (l'Aurora).
Mi piace l'aggettivo che ne deriva, selenico, così argenteo e malinconico, con la suggestione chimica della dose di selenio che contiene, e anche un po' acquatica, di marea. Mi piace quando qualcuno usa la parola lunare, che solo ascoltandola fa fare quei salti rallentati alla mente, senza gravità, e anche lunatico, che ha una sua luce tutta sua, felliniana, come quella di un riflettore di Cinecittà puntato su un personaggio strambo. 
E amo il lunapark, il silenzio delle giostre ferme, le luci spente all'alba di un nuovo giorno e il sole che illumina poco a poco il piccolo sogno che è stato e lo fa svanire.      

(a sorpresa)