nel cielo sereno si parlano
i passeri
(Hattori Ransetsu 1654-1707)
Una poesia, una notizia e una foto per guardare alla realtà scandendola in tre momenti, come succede nel poco spazio di un haiku giapponese. Ogni giorno. La poesia è nelle cose di tutti i giorni. "Cuscino di pietra/accompagno/nuvole" (Santōka 1882-1940)
🌟Carola di Natale al contrario🌟
C’era una volta un ragazzo, si chiamava Mostafa Abdelaziz Abouelela, aveva diciannove anni e veniva dall’Egitto. La sua vita è stata un soffio, l’hanno trovato sotto un cavalcavia di Bolzano morto di freddo tra i cartoni un paio di giorni fa. Se si allargasse il campo con uno zoom, a poca distanza da quell’ultimo ricovero, potremmo inquadrare le nostre lucine alle finestre, le case in miniatura col fiocchetto alternate alle palle con la neve sulle bancarelle, le renne che tirano slitte di porporina con babbo natale che ci saluta. E farci un bel selfie.
“L’agendona era proprietà esclusiva del redattore più anziano. Frutto di anni di lavoro, di poche gratificazioni e forse anche di qualche sevizia, costituiva un bene prezioso come una dote. Veniva consultata con aria da iniziati e a volte trafugata per fotocopiarla di nascosto. In quel mondo cartaceo fatto di schede e diricerche in biblioteca, lavorai come redattrice negli ultimi respiri del 3131, durante la stagione precedente alla chiusura definitiva avvenuta nel 1995, quindi in un periodo mesto e faticoso (quanto al clima surreale, niente di peggio di una trasmissione in chiusura). Gianni Bisiach, anima di Radio anch’io, dall’altra parte del corridoio sembrava sempre un cuor contento e, quando andò in pensione, portò via dai corridoi di viale Mazzini quei suoi modi pratici da americano di Gorizia. Univa alla laurea in medicina la passione per quel tipo di giornalismo investigativo e confidenziale insieme, un po’ da film in bianco e nero, da spy story. Lo ricordo sempre trafelato, con un’aria da cane da caccia”.
Per ricordare Gianni Bisiach ho ripreso quel mio diario di lavoro che fu il libro “Ascoltatori” edito per Add (libro più sfortunato tra quelli che ho scritto, invisibile davvero, e non sapete quanto mi sia dispiaciuto), alla pagina dove racconto proprio quel corridoio dove ci siamo incrociati per non so quanti anni.
Bisiach era tutt’uno col suo lavoro da non aver certo creato una “scuola”, era un direttore d’orchestra, un primario col codazzo. Ma traduceva in sorrisi e slanci di generosità questo suo giocare da solo, e il lavoro lo imparavi osservando quella sua passione. Era la radio che non c’è più (era “lui” la fonte, non certo internet che ancora non esisteva), era la voce che adesso si cercherà nell’archivio audio per ritrovarla come ricordiamo, tonda, sonora, con quella lieve sporcatura friulana nelle vocali, dall’inglese perfetto. Senza narcisismi, conosceva solo la vanità di una camicia bianca fresca di bucato arrotolata sulle maniche. Di lui non sapevamo nulla. Se fosse sposato, separato, mistero. Interrogavo la sua redattrice numero uno, Cecilia, senza ottenere una virgola. Forse esisteva una signora che ne seguiva la vita, privata e professionale, silenziosamente. Nulla di più.
Brindo alla sua memoria come avrebbe voluto, da Vanni, il caffè a pochi passi da via Asiago, con prosecco e tartine. Un cin cin tra una cosa e l’altra da fare, un momento collettivo che durava il giusto, a cui eri invitato personalmente e a cui teneva moltissimo, e a cui non potevi mancare. Poi bisognava tornare su, al lavoro, al microfono che lo aspettava. Bisognava andare.
Ciao caro Gianni.
Vecchio post. In memoria di Patrizia Cavalli mancata il 21 giugno appena passato, in un primo giorno d’estate. Con lei va via un pezzo di mondo che mi piace, che cerco tra i sampietrini o sopra un ponte, si azzitta la voce con la pigra cadenza romana e con essa il ritmo nei versi che solo lei poteva restituire così. Se ne va Patrizia Cavalli, sguardo freccia, la seduttiva e vanitosa, intelligente e bizzarra, intransigente solo nel verso e nel rispecchiarsi dentro quello che faceva e che così tanto le assomigliava, invariabile nel tempo eppure cangiante come un cielo romano, come la vita meravigliosa che cantava.
Ed ecco quello che scrissi qui, il 9 giugno del 2019, in occasione dell’uscita di un suo libro di prosa.Dora quattrozampe
quando dorme galoppa
sognando di volare
Cos’è questo libro, un diario, un’antologia di incontri, viaggi fatti e libri letti oppure una dichiarazione d’amore lunga duecento pagine, cosa è mai? E chi è quella donna disegnata sulla copertina, che fluttua con gli occhi chiusi sulla campitura verde,concentrata in una mossa di tai chi - antica arte del combattimento portatrice di forza e remissione, di bellezza e concentrazione - e soprattutto, vuole forse dirci qualcosa?
Mentre la lieve figurina immaginata dall’artista Cathy Josefowitz continua a volteggiare intenta nei suoi movimenti, io procedo nella lettura di Una vita dolce, capitolo dopo capitolo.
Beppe Sebaste, scrittore divagante, scrive da sempre libri fatti incontri e di altri libri, immaginate quindi quest’ultimo indefinibile romanzo come fosse un faldone di appunti che il suo autore sta riordinando. Si tratta di notazioni raccolte nell’arco di un’esistenza, sono i nomi di vecchi amici, le canzoni che tornano su da recessi lontani, le case, le rive del Gange o del mare di Ostia. E se come per l’autore ognuno di noi è fatto dei luoghi che abita, delle persone incontrate e di tutte, tutte, tutte le parole dette e lette, allora questo libro ci sta parlando e quel verde della copertina, un nulla liquido e colorato, inizia a riguardarci.
Mentre Sebaste continua nelle sue divagazioni riposizionando nella memoria eventi e date e accompagnandoci alla scoperta di un pittore o di un Oriente magico, questopresente viene ricomposto per il lettore da S., osservatrice silenziosa e grandeprotagonista di tutta la storia.
S. che amava ballare, ogni tanto lo fanno ancora, insieme, e sorridere. Come il compagno ama la letteratura e la poesia - per anni ha lavorato per le pagine culturali di un quotidiano – e anche gli haiku, i brevissimi componimenti giapponesi di tre versi dove poche parole precise, quelle, trovano il loro posto nel nulla del foglio bianco.
Una delle tecniche che applica per resistere all’Alzheimer che prematuramente l’ha aggredita è appunto comporne. Sebaste veglia su questi versi, li accudisce inventando risposte in versi con un amorevole gioco di rimandi.
Dora quattrozampe
quando dorme galoppa
sognando di volare
Guardare le parole che se ne vanno, acchiapparle e fissarle sul quaderno. Tre movimenti come tre sono i versi di uno haiku giapponese.
“E’ bello, come sempre le sue poesie. Le scrive da quando non scrive più. Lentamente, con fatica da orafo, o da antico orologiaio. Una sola parola le richiede molto impegno. E ancora una volta mi ci specchio, con un sorriso”.
Se le arti marziali insegnano a cambiare di posto continuamente, a usare movimenti che contengano vuoto e pieno adattandosi a quelli altrui, a seguire la morbidezza di un gesto, la sua rotondità, la minuscola gabbia formale di uno haiku costringe le parole in una forma nuova, proprio quella che cercavamo. E le protegge dal vuoto di senso, illuminando ogni loro più recondito significato.
Eccoci. Siamo dentro al dolore, ma in queste pagine c’è spazio solo per la luce, la gioia e la morbidezza.
Torno a quel niente verde della copertina, dentro quell’altrove, a quel non essere quiche ci sfida, e ci accoglie, con la medesima forza. Bisognerebbe saper rispondere a ciò che la vita ci pone davanti, provando a sorridere come Sebaste quando si specchia in S. e che, a sua volta, sorride. Non è facile.
Qualche anno fa li ho visti, l’occasione era un incontro poetico organizzato all’Orto Botanico di Roma, avrei ascoltato qualcosa di bello magari sotto quella minuscola e maestosa foresta di bambù che verdeggia nel centro, quindi ho preso il motorino e ho raggiunto quel manipolo di poeti a raccolta, il sole fresco di una primavera qualsiasifiltrava tra noi. S., sotto lo sguardo trepidante di Beppe, lesse qualcuno dei suoi haiku con la forza dolce e vigorosa dei germogli.
Quel momento lontano, sperso nella mia memoria, adesso lo metto a fuoco capendolo meglio. Ha finalmente trovato il suo posto pieno di luce dentro di me.
E’ un libro saggio, sono rari i libri così, sono regali. L’esercizio che suggerisce, illuminando una coniugalità fuori dagli schemi, dove la dolcezza non è zuccherosa e le amarezze non appaiono come sterili rivendicazioni, è quello di provare a rimettere a posto le cose.
“Ho paura, per lei e per me. Che la notte cancelli o nasconda anche solo in parte la luce tenera e forte che ha fatto innamorare di S. chiunque l’abbia incontrata nel corso della sua malattia. Riusciremo a tenerla accesa, a colorarla? Se lei scompare, sono io che non vedo. Se divento invisibile, sono ancora io a essere cieco. Se lei diventa cieca, sono sempre io a non vedere”
Ed è così che in questo romanzo dolce e saggio, metafisica, cosmogonia, condizione umana diventano cose a portata di mano. O meglio, di carezza.
Pace. La sensazione di benessere di Bashō dopo tanto camminare che sia anche la nostra, dopo troppo tempo e sangue solo quiete, ombra, frescura. Ah. Dimenticavo, quello che vedo nell’haiku è un locale dove nessuno usa, chiede o offre armi.
Una ragazza che si chiama Greta Thunberg ha chiamato a raccolta milioni di persone in nome dell’ecologia. Noi occidentali, vecchi rottami del novecento, continuiamo a dividerci in nome della pace. Sarebbe stata bellissima una manifestazione globale, guidata dai capi di stato, saremmo tornati ragazzi, avremmo toccato il futuro, sentito il profumo dei glicini.