mercoledì 31 ottobre 2018

Preghiera per i morti, preghiera per i santi


Ventisette ossa,
trentacinque muscoli,
circa duemila cellule nervose
in ogni polpastrello delle nostre cinque dita.
È più che sufficiente
per scriver Mein Kampf
o Winnie the Pooh.
("La mano" di Wislawa Szymborska



Alla fine siamo fatti di ingredienti semplici. Ossigeno, carbonio, idrogeno, azoto, calcio, fosforo, sodio, magnesio, ferro, alluminio, tutta roba riciclabile.
Siamo questo. Siamo il mucchio ambulante di tutto questo. Mio padre si chiamava Achille, è morto dieci anni fa, tra il 2 e il 3 di novembre, nella settimana dedicata ai morti e ai santi, giorni grigi con lame di luce, il suo ricordo ne scalda i colori. Era vivo, un giorno, e tanti tanti giorni lo è stato, poi non più, tutto qui.
Lo risento nell'odore del sigaro di qualcuno che fuma, le da' fastidio, lo posso spegnere se desidera, no no, non si preoccupi, affatto, mi piace il profumo del toscano. 
L'ho rivisto. Una volta, nell'orecchio di un passante, anzi più precisamente, nel pezzo dell'orecchio che usciva fuori da un cappello, una coppola calcata su una faccia che non era di mio padre, mannaggia. L'avrei fermato, signore lo sa che... ma non importa. Tanto lo rincontrerò, mio padre, una prossima volta, come mi è già successo al cinema. La mano poggiata sul bracciolo condiviso, bianca e ben proporzionata, stesso modo di distenderla, e il pollice, signore lo sa che lei ha...
E' un modo di pregare il mio santo piccolo, che non fa miracoli e che non ci credeva neanche.


(l'Aldiqua)









    

martedì 30 ottobre 2018

Allarme meteo



Allora voi, che volgerete
lo sguardo verso di noi dalle vette
dei vostri tempi splendidi, come chi scruta una valle
che non ricorda neppure di avere percorsa:
non ci vedrete, dietro lo schermo di nebbie.
Ma eravamo qui, a custodire la voce.
Non ogni giorno e non in ogni ora
del giorno; qualche volta, soltanto,
quando sembrava possibile
raccogliere un po’ di forza.
Ci chiudevamo la porta
dietro le spalle, abbandonando
le nostre case sontuose
e riprendevamo il cammino, senza meta.
("A quelli che verranno" di Fabio Pusterla)


Che tempo strano, vero? Un tempo fatto di tutti i tempi, sole e pioggia, freddo e caldo insieme, Véstiti a strati e usciamo, ombrello e sandali come equipaggiamento, in caso, portati un golf.
Che mondo lasciamo, che mondo strano, questo, di allarmi e invasioni, di freddo e di caldo, di nero e di bianco.

(bacio sulle rovine)




venerdì 26 ottobre 2018

La mia festa del cinema


"Non possiamo ricominciare ancora.
Soltanto possiamo ancora finire".
"Ma non abbiamo mai finito".
"Oh sì, non crederlo.
Abbiamo finito molte e molte volte.
Non una volta sola.
E ora possiamo finire di nuovo.
E ancora e ancora.
Senza un nuovo inizio"
(da "Cairn" di Enrico Testa)

Come una sceneggiatura questi versi d'amore, come il dialogo di un film di cui abbiamo perso l'inizio.
In questi giorni di trasmissioni dalla Festa del Cinema di Roma, ho scoperto l'opera di Maurice Pialat, la cui retrospettiva vado inseguendo di sala in sala trepidante e turbata, per quanto il suo lavoro mi colpisce. Ma non è di questo mio turbamento che volevo parlarvi, non di Pialat, che bisognerebbe recuperare e non basto certo io a parlarne, ma di quei momenti sospesi prima della proiezione di qualsiasi film, quelle sigle animate che compongono il logo di produzione, quelle con la musica sincopata, o rarefatta, in primo piano. Pochi secondi. I marchi machi di Titanus, Lux, 20Century Fox, le note jazz anni settanta di Cineriz, il Giappone di Mikado. Paramount con il monte innevato, Columbia con peplo e torcia di luce. Leoni, palloncini, un abat jour che saltella, una falce di luna sul lago che scintilla. E quante stelle in quei secondi, una pioggia di stelle stilizzate al computer o disegnate non importa, lampeggiano tra i marchi, saettano i loro raggi di luce sul logo, il tondo della Gaumont, i Media Associati, i Warner, i Dreamworks.
È l'attesa per qualcosa di meraviglioso che si chiama cinema, tutti insieme nella stessa sala, in quella stessa ora, seduti su poltrone di velluto ad aspettare.


(Come un fotogramma)







martedì 23 ottobre 2018

Senza di te


Senza di te,
in verità, i boschi
son troppo ampi!
(Issa 1762-1826)


"Anvedi, me stavo p'ammazzà" dice, sedendosi a piombo sul sedile, quello più alto dei due, dopo essere quasi caracollato sull'altro per una frenata improvvisa dell'autobus.
"Mèttete qua, va" sogghigna l'amico.
Sono seduti davanti a me, identici, stesso ciuffo scolpito, stessi tatuaggi, stesso telefonino da compulsare, stessa aria di chi conosce la vita dall'alto dei sedici anni. Non proprio dei secchioni, direi. Più frequentatori di baretti all'angolo o di curve dello stadio per urlarci dentro la domenica. 
Lei. Appare dopo una fermata. È appena salita, li raggiunge venendo verso di noi. Sì, c'ero anch'io, ma loro tre non lo sapevano. È scura di pelle, stessa età. Occhi seri sulla bocca sorridente, un piercing sul naso. Iniziano a chiacchierare un po' a mugugni, un po' a risate, un po' mostrandosi lo screen del telefonino.
"E che mica lo so daa prossima settimana" sento che dice lei sotto i cento fermaglietti che ha in testa "È mi' padre che me deve ffa capì come se fa, ma non se capisce gnente. Figurate, capace che se me scade me ne devo annà e tornà laggiù. Perchè io so' itagliana ma me scade..."
"Ma che, davero te ne devi annà?" Dice uno dei due ragazzi con la voce che gli esce da sola dalla bocca che intravedo mezza aperta, sospesa. 
Anche l'altro, che ora lo guarda sgomento e poi guarda lei, scuote quell'opossum di capelli con aria persa. Le facce che vorrebbero essere da cattivissimi, i tatuaggi con i gladiatori uguali a quelli Totti, non fanno paura a nessuno. Loro non vogliono fare paura a nessuno, figurati a lei.
"E che sse fa?"
"Boh, qualcosa se inventàmo, io nun ce capisco gnente. Ecco semo arrivati, scennemo va."
"E sì, qualcosa se inventamo"
I boschi sono troppo ampi, senza di te!

Li vedo, i tre. Veloci verso il corso con i negozi, magari la prossima volta quelle scarpe fichissime me le compro, vedo la lattina condivisa, gli scherzi a lei, le prove di abbraccio di uno dei due.
Un po' sono felice.
Qualcosa, loro tre, si inventeranno.


(Bosco romano)



sabato 20 ottobre 2018

Innìo, in nessun luogo e ovunque


Pensarti almeno, Pier,
in un innìo lucente, i piedi sporchi d'erba
al riparo del silenzio,

preso come il giardino, dal verso strano
di un uccello nascosto che non conosci
eppure è come già sentito
per le strade tue di dentro.

Presa anch'io da quel verso, mi riscuote
il tuo allegro "Prendi".
Vola sull'acqua, la scaglia, vola sull'acqua,
che non scorre, vola,
salta sulla mia riva,
e nella tua mano. E' lucente.
(Inedito di Ida Vallerugo)

Mi commuove il Pier, la dedica chiusa dentro due virgole, e dentro una poesia. E' come se venisse cristallizzata lì una voce, come se ci fosse la vita, un soffio almeno, dentro i versi dedicati, un sentire umano che diventa tangibile, visibile, intrappolato com'è nell'ambra della costruzione poetica.
Il libro uscito postumo di Pierluigi Cappello, a poco più di un anno dalla sua morte, che raccoglie il corpus poetico di Pier, in un innìo lucente che consiglio. Innìo, in nessun luogo, dice Vallerugo citando un verso di Cappello, nella loro comune parlata friulana che diventa intimità. (In ricordo di Cappello ho scritto questo, cliccando QUI puoi leggerlo.)

L'inedito di Ida Vallerugo apparso sull'ultimo numero del mensile Poesia appena copiato qui, vorrebbe essere un esempio di quella catena poetica che provo a comporre ogni giorno e che oggi sta coi piedi nell'erba di quelle campagne che ho imparato a conoscere come dure, aspre, nei versi di Villalta, e che è come se si elettrificassero in Zanzotto
Amo leggere poesie. Da una vado all'altra, posso arrivare a Bertolucci passando da Santōka, a Sereni da Orelli e Pusterla. Arrivo a Rene Char che mi riporta a Sereni, e Magrelli, Osip Mandel'štam nei versi di Anedda, Raboni e Valduga, Valduga e Raboni. E Zeichen con i suoi epigrammi, ne aveva per tutti, che parlano di invidie e poi di abbracci. Arrivo a Patrizia Cavalli. E alla Gualtieri, che è come si mi parlasse in un orecchio, e che in un'intervista cita la Vallerugo che prima non conoscevo. Ecco l'anello della mia catena poetica che aggancio oggi, qualcos'altro domani ci aggancerò.
Amo leggere poesie. 



giovedì 18 ottobre 2018

Gli appost


Addosso al viso mi cadono le notti
e anche i giorni mi cadono sul viso.
Io li vedo come si accavallano
formando geografie disordinate:
il loro peso non è sempre uguale,
a volte cadono dall’alto e fanno buche,
altre volte si appoggiano soltanto
lasciando un ricordo un po’ in penombra.
Geometra perito io li misuro
li conto e li divido
in anni e stagioni, in mesi e settimane.
Ma veramente aspetto
in segretezza di distrarmi
nella confusione perdere i calcoli,
uscire di prigione
ricevere la grazia di una nuova faccia.
 (Da “Il cielo”, in Patrizia Cavalli)

Una poesia come un selfie, con Cavalli succede anche questo.
Mi capita spesso di leggere sul social più famoso del mondo gli "appost". E' finito il tempo dei post, i brevi editoriali dal tono sentenzioso, a volte spiritoso, ormai sono superati. Gli appost sono veri e propri resoconti di vita vissuta apposta, appost, per poterne scrivere su Facebook. Litigi sull'autobus fatti appost in previsione di qualche like di complice sdegno, piccoli sondaggi per dubbi nati appost, piatti cucinati per l'appost con la foto da pubblicare all'ora di cena. E gli immancabili gattini, stuzzicati appost solo per poterne raccontare.

Ma veramente aspetto
in segretezza di distrarmi
nella confusione perdere i calcoli,
uscire di prigione

Siamo diventati questo, è successo, non l'abbiamo fatto appost. 

(in vetrina)



martedì 16 ottobre 2018

Riti quotidiani


E' ridicolo credere
che gli uomini di domani
possano essere uomini,
ridicolo pensare
che la scimmia sperasse
di camminare un giorno
su due zampe

è ridicolo
ipotecare il tempo
e lo è altrettanto
immaginare un tempo
suddiviso in più tempi

e più che mai
supporre che qualcosa
esista
fuori dell'esistibile
il solo che si guarda
dall'esistere
("È ridicolo credere" di Eugenio Montale)


Quando sulla lavastoviglie premo invio è come se quel pulsante fosse collegato al cosmo. Ascolto l'acqua nel risucchio della pompa, trattengo il respiro, il fluire liberatorio tra le pentole sporche, espiro, e il clic dello sportellino del detersivo e le eliche che girano. 
Tutto fa ciò che deve ed è come se ogni piatto o bicchiere mi tranquillizzasse e potesse anche dirmi sai, va tutto bene, tutto ha un senso, tranquilla, non vedi? Le cose sporche torneranno pulite, tu non ci pensare.

(ti credo)