martedì 24 settembre 2019

Della radio e della poesia


...il soffio dell'altalena...
(da un inedito di Milo De Angelis)


"Porterei tre poesie inedite" mi dice Milo De Angelis al telefono quando lo raggiungo per invitarlo in diretta, una delle tante, tantissime dirette di Fahrenheit.
"Parlerei poco, non ho molto da dire" ha aggiunto con la voce che ha, che poi è identica a quella poetica - nel tempo ho capito che i poeti veri hanno la voce dei loro versi e mettono insieme le parole che dicono come fanno sulla pagina. E le parole cadono una a una, ma cadono nell'aria. 
Di tutta la lettura nella mente fisso quattro parole e l'immagine di un'altalena lontana su cui dondola una bambina di nome Lauretta che adesso avrebbe i suoi anni. 
Alle 18.00 una poesia è stata appena detta nel soffio di una voce, e galleggia nell'etere della radio che faccio e nella testa di chi, lontano, è in ascolto.
La radio e la poesia a volte si assomigliano. 


(poesia alla radio)


domenica 15 settembre 2019

Il mio libro


Spuntano i germogli
al tronco d'un grande albero
poggio l'orecchio
(Hosai 1885-1927)

Questo è l'haiku a cui mi riferisco nel pezzo uscito ieri su "Il Fatto". Lo dedico agli ascoltatori, a chi fa la radio e a chi la sente e a chi sa quello che ha significato per me questo viaggio nelle vite degli altri. Yuppi!
Ed ecco il testo per chi l'avesse perso:

Ho sempre amato la radio. Da bambina puntavo la sveglia alle 5.45 per ascoltare il bollettino del mare dalla mia radietta a forma di scatola che tenevo sotto il cuscino. Immaginavo un capitano vero, con tanto di barba, cappello e timone che, ritto sulla tolda della nave, leggeva agli ascoltatori le sue misteriose informazioni: Libeccio, Forza 8, Stretto di Sicilia, 10 nodi, Mar Libico. In quel limbo tra sogno e realtà bastava solo aspettare sotto le coperte: mamma e papà si sarebbero svegliati, avrei fatto colazione e infilato la cartella, pronta per affrontare una nuova giornata. Magari il famoso libeccio avrebbe soffiato proprio quel giorno, chissà
Dalla voce professionale del bollettino di Radio Rai sono passati decenni e adesso in quella scatola ci lavoro. E così ho finito per amare anche la radio che non va in onda. La lotta al montaggio per un minuto irrinunciabile, il turno di registrazione che salta, le riunioni di redazione, la soddisfazione di una sfumata” giusta o di un taglio” impercettibile, lattesa di un ospite che non arriva e intanto la diretta procede inesorabile verso il precipizio… Amo fare la radio, costruire una scaletta, organizzare gli speciali dai festival o da posti meno fotogenici come una mensa per i poveri, un carcere, un quartiere difficile. 
Un giorno di qualche anno fa chiamò un ascoltatore per partecipare alla diretta. Nulla di nuovo, la radio non è forse per chi lascolta? Cosa c’è di straordinario in una telefonata per rispondere a un quiz? Eppure quel giorno, un giorno come tanti di qualche anno fa, quando lascoltatore fu collegato per andare in onda, dentro di me scattò qualcosa.
Da dove chiama, Michele?” gli fu chiesto. Da un alpeggio, faccio il pastore, rispose. Cera poco tempo, il segnale orario incombeva, il conduttore raccolse la risposta e lo salutò. Da un alpeggio. Un pastore. Un pastore che sente la radio, mi ripetevo, da un alpeggio. Uno che ci telefona e dice: la risposta per me è Autodafé di Canetti, mentre in sottofondo si sentono belati e campanacci. Avrei voluto piantare tutto e andare lì in Piemonte, tra quelle montagne che dun tratto mi sono apparse davanti agli occhi ascoltando il signor Michele. Volevo conoscere la sua storia, capire chi fosse, come fosse arrivato lassù in quellalpeggio e da dove. Ecco, è stato allora che ho scoperto per la prima volta cos’è un ascoltatore, intendo la persona ascoltatore in carne e ossa. Uno che poggia la radio sempre sullo stesso sasso perché solo lì trova la sintonia giusta, come potevo non andare a conoscerlo? E così ho copiato il suo numero di telefono e lho messo da parte, senza sapere ancora cosa farne.
Fino a quel momento per me gli ascoltatori erano una comunità astratta. Grazie a Michele ha cominciato a girarmi in testa unidea diversa: potevo andare io da loro, provare a restituire un corpo allorecchio, farli immaginare, farli sentire, renderli visibili. Conoscerli nelle loro case, tra i loro affetti, raccogliere le loro esperienze di vita, magari proprio davanti agli apparecchi dai quali ci ascoltano ogni giorno. Dopo Michele di Mondovì ho incontrato Stefano, un ex sacerdote ora portiere di uno stabile romano, e Ivo, anche lui romano, un vecchio rugbista amante della rassegna mattutina dei giornali, e Adriano a Castelfranco Veneto, e Armando che insegna scacchi in una scuola media di Castellamare di Stabia, per me un vero samurai, e Valeria, di nuovo a Roma, e poi Angela e Angelo di Andria, e Paola a Brescia, Lisa e Francesco a Levico Terme, e Vinni ad Alghero. Ho provato a forzare la loro ritrosia, a farli parlare. Forse, chissà, ho imparato la loro larte: drizzare le antenne, mettersi in ascolto. E’ stato un lungo viaggio, per certi versi ho compiuto un giro completo: è come se fossi tornata ad ascoltare la mia radietta a forma di scatola.
Continuo a pensare che la radio contribuisca non solo a raccontare il mondo ma anche ad ascoltarlo, nel suo rumore e nei suoi silenzi. In un'antica poesia giapponesequalcuno poggia lorecchio sul tronco di un albero per sentire il germoglio, è unazione così bella. Attiene al rispetto, allattesa, comporta tolleranza, riflessione. E’ una disciplina, e come tale richiede tempi lunghi, meno contratti. Così, anche se intorno tutti strepitano, resiste una comunità invisibile e ricchissima, unarcadia di persone capaci di ascoltare chi sta dicendo qualcosa.
("Ascoltatori. Le vite di chi ama la radio" edizioni add)

giovedì 12 settembre 2019

Primo giorno di scuola


Se anche mio figlio, ieri, col libro di grammatica
greca aperto sul tavolo, sorridendo confuso tra il desiderio
di non dispiacermi e il pragma
della cosidetta realtà, chiede "A che serve?"
io dico a voi, ragazzi: la bellezza
è gratuità del gesto,
come quando vi amate,
è il momento preciso in cui un essere umano
si stacca da terra,
s'inginocchia e disegna
un toro
sulla parete
della sua grotta,
a Lascaux. Così,
senza motivo. 
O ha scoperto il modo
per non essere solo
- e ha scoperto il modo
per non morire.
("Risposta per Arturo" di Maria Grazia Calandrone) 

Mi sarebbe piaciuto avere una maestra come Maria Grazia Calandrone. Avrebbe fatto lezione con serietà, usato le parole giuste, pacate, per far capire alla classe quel toro sulla parete, e nessuno le avrebbe ridacchiato dietro o tirato fuori il telefonino, sì lo so non c'erano telefonini quando andavo a scuola io, ma non importa, nessuno le avrebbe sparato sulla schiena palline di carta da una Bic-cerbottana.
Settembre sa di progetti e di matite temperate e questa poesia vuole essere il regalo di un buon inizio per chi torna a scuola come alunno o come insegnante. E se la poesia civile riesce a fondersi con versi d'amore come in questo suo libro, allora, ogni settembre della vita sarà più dolce. 




    

venerdì 6 settembre 2019

Al Festival


E io, alla vigilia di svanire,
teatro di parole ritrovate
nel buio delle ossa,
sì, io, a supplicarlo di apparire
tra voci vigliaccamente inventate...
Che cosa può che un altro in me non possa?
Oh presto allora il poco che rimane,
cane delle mie ossa, ossa di cane!

(Patrizia Valduga da "Lezione d'amore")

Quella di ieri è stata la prima di quattro puntate al Festival di Mantova. È andato tutto bene, secondo lo schema classico: gli ospiti - grandi, piccoli, famosi o sconosciuti e tutti con il loro breve spazio assegnato da riempire di parole - e gli incastri sulla scalette tra gli incontri e l'orario stabilito, gli applausi del pubblico, e gli sguardi d'intesa tra noi. E poi è arrivata Patrizia Valduga.


(Lezione d'amore)

mercoledì 4 settembre 2019

Ascoltatori


Dammi da mangiare
dalla tua voce
un pane di parole intese
dentro le misure del silenzio
(da Le giovani parole di Mariangela Gualtieri)


Ho voluto dedicare un libro agli ascoltatori, questa comunità di persone invisibile e ricchissima e ho compiuto un gesto realmente social: sono andata a conoscere di persona dieci di loro. E tra le loro cose, i loro affetti, ascoltandoli, ho capito quanto ci si assomiglia. Quanto si sta bene insieme.
Amo la radio, nel suono e nei silenzi. Amo i programmi, le voci, i colleghi amici, la musica, amo anche il segnale orario. Anche quella breve sospensione tecnica tra un programma e l'altro che genera, in chi la percepisce, un trasalimento. In quella micro pausa resiste una pace segreta, una perdita di contatto piena di vita dentro, basta solo farci attenzione. Assicuro che si tratta di un vuoto abitato, almeno dieci teste, almeno dieci esseri umani vivono dentro quell'attimo sospeso che respira nelle zone mute del palinsesto. Nel mio libro ho provato a raccontare questo, un'azione così bella e poetica, ascoltare, e tutta la vita che c'è dentro.


(da parte mia)