giovedì 12 febbraio 2015

Ciotole in giro

Grandina
nella mia ciotola
di metallo
(Santoka 1882-1940)


Gran parte dei monaci zen che frequento nel mio blog viveva di elemosine, oggi verrebbero chiamati barboni, invisibili, dimenticati. Giravano a piedi il Giappone, su sandali leggeri e con in testa un cappellone di bambù per ripararsi dalla luce e dalla pioggia. Si fermavano dove trovavano asilo e un po' di cibo. Conoscevano bene fame, sete, pulci, freddo, caldo e stanchezza. I loro cammini esistenziali li annotavano in forma di diario e di haiku che ancora offrono spunti di riflessione a distanza di tre secoli e più.


Fino al 2010, anno in cui morì, nella piazza dove la dolce vita di Via Veneto precipita verso il basso, piazza Barberini, si agitava un "matto". 
Spernacchiava gli automobilisti fermi al semaforo, urlava cose pazze e slogan contro i politici. Mostrava la lingua a chi lo incrociava a piedi e gli partiva pure qualche sputo.Tutti i giorni lo trovavi lì, i romani se lo ricorderanno di sicuro. Bizzarramente elegante, bretelle colorate, cravatta sopra la felpa, uno stereo a manetta. 
Ballando, perché ballava, faceva vibrare le due antenne che si era incollato sul cappelletto. A volte faceva un inchino pazzo.
Un giorno di tantissimi anni fa prese di punta la nostra macchina, urlando frasi in libertà a mio padre che era alla guida. La mia reazione fu la classica della bambina che si vede in un colpo orfana per colpa di un cattivissimo con antenne. Fatti pochi metri, e rassicurata dal fatto che mio padre era ancora vivo e al volante, riuscii a esclamare d'un fiato "Ma è proprio matto,eh?!" 
Risposta: " E' un tipo simpatico!".
Mi si ribaltò il mondo. Uno così (qui), con quelle antenne, poteva non solo non essere malvagio, ma addirittura simpatico. 

Anni dopo, avrei risposto ai "saluti cantati" di un uomo eternamente sorridente, fisso per anni allo stesso semaforo, che chiedeva l'elemosina ai passanti. Dal taschino della giacca sbucava una forchetta con un pezzetto di pane infilzato. "Per quando non avrò più gnente da magnà!" rispondeva, e tornava a cantare.

Negli anni Novanta ritovavo, quando passavo dalle loro parti, le tracce di una coppia, lui e lei. Due vecchi russi che si erano costruiti una "dacia" di cartoni dalle parti di Via Nazionale e che portavano un colbacco di pelliccia anche d'estate. Occhi chiari e gambe gonfie. In giro, sacchi di roba di tutti i tipi. Cicche in bocca, bottiglie svuotate, pentole e fornelletto.

A Corso Francia so che esiste un "barbone vivaista" che ha reso più belli e lussureggianti i ritagli di verde nel traffico. Agavi ripiantate, palmette, aiuole sghembe, abetini scampati ai salotti, gerani liberati dai vasi. Questo fantasmatico Marcovaldo di Roma Nord io non l'ho mai visto ma so che c'è. Abita in quella che i tassisti chiamano "la villa di cartone". 

Nel bel mezzo della piazza "più piazza" di Roma, ovvero Piazza dei Cinquecento - già il nome dice molto dell'ampiezza - troverete due donne. Amiche, sorelle, madre e figlia? Non si capisce. Fanno da spartitraffico umano in una delle zone più esposte e di passaggio che io conosca, a qualche centinaia di metri dal caos della stazione Termini. La gente intorno non può che andare di fretta, i pullman scaricano i turisti, i motorini sfrecciano. In mezzo alla piazza, un mucchio di coperte da dove sbucano un piede, una faccia o una mano, a seconda della temperatura. 

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