lunedì 11 agosto 2014

In viaggio con SANTOKA




La circolarità di un cammino che non ha meta se non il cammino stesso, il vento sempre uguale nei secoli, il rimprovero per il peso di un senso di colpa che diventa universale. 
Oggi per il post dedicato al mio amato Santoka, colui che le regole, non solo poetiche, di certo non le osservava, propongo una pagina dal suo diario:

28 febbraio 1932 
Tutti i giorni brutto tempo; oggi di nuovo a chiedere l'elemosina nella neve.
Forse è troppo dire che qui le strade sono le peggiori di tutto il Giappone, ma sono di sicuro straordinariamente fangose.
Le porte dei negozi infangate, i passanti infangati.
Le suole di gomma dei miei tabi da lavoro affondano e procedere è veramente molto dura.
Però la zona è piena di rivendite di sakè e quindi il suo prezzo è molto basso.
Esattamente il posto per uno come me!
(da "For all my walking"  ed.Columbia University Press. Traduzione dal giapponese di Watson Burton  e mia dall'inglese)

Santoka è il più diseredato dei poeti zen che frequento in questo blog, il più solo e povero, colui che aveva sbagliato tante volte e che ha perso molti treni in vita sua. E colui a cui penso quando vedo un uomo disperato, senza lavoro o un senzacasa. Quando scorgo qualcuno biascicare qualcosa che nessuno capisce e poi si butta in un angolo.
Santoka ci ricorda che la pratica ascetica e, infine, anche la letteratura non sono patinati. Che il buddismo non si pratica dalle 16 alle 21 in una palestra pariolina,  non veste alla moda. È per pochi, spesso mette a disagio e puzza di umanità.
Senza quiete, camminava per chilometri e chilometri su e giù per il Giappone consumando i suoi tabi , i leggeri sandali in paglia dei monaci. Viveva di elemosine e dormiva dove capitava. San-to-ka che significa "alta cima fiammeggiante", a dispetto dl suo nome altisonante dormiva spesso per terra, sotto le stelle e con i grilli. Si ubriacava di sakè per riprendersi dalla fatica esistenziale, dai fallimenti professionali, dalla stanchezza fisica, dalla solitudine. Osservatore delle piccole cose quotidiane come foglie, lucciole, un pugno di riso, una mosca, una pozzanghera, le annotava in forma di haiku sul suo diario.
Nel suo cammino Santoka ci ha lasciato versi toccanti, trasparenti e universali.
Personalità caratterizzata da una tensione psicologica strettamente novecentesca, di colpevolizzazione e fallimento, Santoka scrive nel suo diario che "la fede è l'origine, lo haiku la sua espressione. Per questo devo camminare, camminare, camminare fino a che non arrivo".
E solo leggendo i suoi versi possiamo accompagnarlo.
Ma il viaggio insieme al monaco zen più anarchico e solitario è lungo e, a volte, capita di venire trafitti a tradimento da una voce, da una canzone, da un odore. 

Lucciole ovunque
rieccomi
nel mio villaggio natale.
(Santoka 1882-1940)

Stanchezza, attesa, silenzio, sorpresa, spaesamento, eccitazione.
Vi va di rileggere l'haiku di Santoka, alla luce...delle lucciole?
Stanco dopo tanto camminare, l'inquieto monaco vede il suo villaggio natale, luogo caro ma ostile, che ha lasciato per i suoi pellegrinaggi esistenziali durati più di dieci anni. Conoscendo la complicata biografia di Santoka non è un caso, per me, che l'immagine "villaggio natale", collocata nel terzo ku, sia il kireji (vedi tra etichette a destra) ovvero il luogo poetico di ribaltamento e sorpresa.
È una serata tiepida, estiva, un po' come sarà per noi quella di oggi, San Lorenzo. Tutto intorno i puntini luminosi e intermittenti delle lucciole. 
Lo immagino un po' brillo appoggiato al bastone, con i tabi infangati, il cappello di bambù (kasa) dietro la schiena, la sacca delle elemosine ai piedi, la fiaschetta del saké vuota.

Lo haiku tende sempre la stessa trappola: che ci vuole a comporlo?
A parte tutte le regole rigorosissime che ho cercato di sintetizzare QUI e  il suo "effetto", ovvero quella tensione verso l'infinito, è impossibile spiegarlo.

Appuntamento a venerdì!